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Se lo sfondo non c'è più

Una cultura che fa prevalere i primi piani, porta a ritenere secondario ciò che sta in secondo piano. E tende a eliminarlo, rimuovendo la storia

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Il primo premio del World Press Photo è stato assegnato a un'immagine che di giornalistico ha poco, perché suscita emozioni senza dare informazioni. S'è parlato di una Pietà moderna e in effetti la postura dei due soggetti la ricorda: una donna con il niqab - il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi - tiene tra le braccia, adagiato sul grembo, un uomo a torso nudo, probabilmente ferito. La donna lascia vedere anche dei guanti di lattice, da infermiere, e l'uomo un tatuaggio. Ma entrambi non mostrano i volti: la donna l'ha velato e l'uomo l'ha coperto. Soprattutto non si vede nulla accanto e nulla dietro: se non si può dire che la foto sia posata, è indubbio che lo sfondo vuoto faccia pensare a quelli degli studi fotografici, sfumabili e colorabili a piacere.

Quest'immagine, più che un racconto, è un simbolo: fa vedere pochissimo e tace della realtà dello Yemen, di cui siamo a conoscenza per le interviste rilasciate dal fotografo. Non che non sia una foto drammatica: solo esprime un dolore universale, quello di ogni madre/moglie/sorella che sta male per il proprio congiunto che sta male e si china teneramente su di lui.

Ora, se da una parte ci sentiamo uniti a chi soffre, paradossalmente ignoriamo quasi tutto di quella sofferenza specifica. E allora domandiamoci se la nostra sia partecipazione o non sia, in realtà, una fuga. Se l'amore per i simboli non porti, alla lunga, a non vedere le situazioni, a non farci coinvolgere in nessun dolore che non sia anche un po' nostro. Una schizofrenia già rilevata dalla poetessa Wislawa Szymborska, quando scriveva: «Preferisco me che vuol bene alla gente / a me che ama l'umanità». La gente, infatti, è piena di particolari: colori, nomi... e anche difetti. Mentre l'umanità è una categoria monocromatica, che gode di un pregiudizio sempre positivo e che si può cogliere in un attimo: perché non ha molto da far vedere e non ha sfondo. Come una foto scontornata.

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Ecco a cosa somiglia la foto vincitrice. Quella scontornata è una foto più fotogenica, spogliata com'è dei suoi accidenti, e piace perché buca lo schermo o la pagina. È - lo confesso - una delle tentazioni più forti di un grafico: quand'è stremato dagli angoli retti di testi e immagini, trova la foto adatta, sceglie che cosa far risaltare e leva ciò che sta intorno e dietro. Ci guadagna la foto, che si legge in un istante e, passando da pittura a scultura, aumenta il suo tasso simbolico. E ci guadagna il testo, che, invece di apparire come un blocco, può sagomarsi attorno alla foto scontornata. Tutto questo grazie a Photoshop, la grande invenzione - del 1990 - che è per le immagini l'equivalente della chirurgia estetica. Da maneggiare con cura, però, non per giocare al "Piccolo grafico". Perché non si può dire: «In fondo, è solo uno sfondo. Leviamolo». Togliere uno sfondo è un'operazione culturale, di cui essere consapevoli, e va fatta con senso di responsabilità, non perché «si può fare». Anche se a chiederlo è il direttore del giornale (spesso una primadonna capricciosa, brava con le parole ma che usa le immagini come cravatte o foulard).

Avendo lavorato in qualche redazione, ricordo lo sgomento dei fotografi (Tano D'Amico su tutti), che si turbavano a vedere le proprie foto dopo lo scontorno: era come se qualcuno le avesse manipolate, come se fosse entrato a casa loro derubandole del contesto. Che non è un optional di cui poter fare a meno. Perché rimuovere lo sfondo è rinunciare a vedere qualcosa che potrebbe essere utile per capire. Alla lunga è rimuovere la storia. Di questo passo si rischia di moltiplicare i bei primi piani, come quelli che dà la tv, che non è detto provengano dall'angolo di mondo di cui si parla: gli occhioni piangenti di un bambino potrebbero essere presi da un altro servizio fotografico, così come potrebbero essere creati ad arte.

La cancellazione dello sfondo è un'operazione culturale antica e Photoshop ha solo trovato la tecnica per renderla più veloce e più credibile. Già il fatto di inquadrare qualcosa - lo sanno bene gli artisti, i fotografi, i registi - è un'operazione culturale, perché è una decisione su cosa tenere e cosa buttare, su cosa mettere in luce e cosa lasciare in ombra. Illuminare un frammento di realtà è renderla metafisica, portarla su un piano più alto. Il passo ulteriore è levarle l'aria, sostituendola con l'aura. I primi a intuirlo sono stati forse i mosaicisti del IV secolo, che campivano d'oro il fondo dei soggetti religiosi, non accontentandosi di una semplice aureola attorno al capo: levando la luce celeste e immettendo una luce divina, aiutavano a realizzare il passaggio dal profano al sacro.

A partire dall'XI secolo, c'è stata l'introduzione di una tenda e successivamente di un telo, a coprire parte dello sfondo, per separare la mamma di Gesù da ciò che è terrestre, sottolineando la sua opera di mediatrice, il suo ruolo di avvocata nostra. Una tendenza che esplode nel XV secolo, con il Beato Angelico, Rogier van der Weiden e Giovanni Bellini.

In tempi recenti sono meritevoli di segnalazione due utilizzazioni "creative" dello sfondo. La prima è stata in uno spettacolo teatrale molto chiaccherato, che ha talmente ingigantito il volto dell'Ecce homo di Antonello da Messina da far passare in primo piano ciò che era sullo sfondo. Un ribaltamento in linea con la volontà di parlare per simboli, di sfruttare la loro luce abbagliante.

La seconda è avvenuta nel Festival di Sanremo, quando si è ricorso a uno sfondo di distruzione e di morte per giustificare un discorso apocalittico. Il risultato è che si smetterà di usare impropriamente il verbo pontificare, col significato di asseverare senza possibilità di contraddire e soprattutto senza dare a capire. Si userà celentanare.

 

Gian Carlo Olcuire

© www.vinonuovo.it, 21 febbraio 2012

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