Seminari, da 450 anni «vivaio» della Chiesa
Il  4 dicembre 2013 ricorreranno i 450 anni dalla chiusura del Concilio di  Trento (1545-1563) ma prima ancora (15 luglio) è stato importante fare  memoria del giorno in cui i Padri conciliari approvarono all’unanimità  il decreto Cum adolescentium aetas,  che raccomandava l’erezione del Seminario in ogni diocesi. Un  provvedimento di rilevanza epocale, che dotava la Chiesa di uno  strumento per la cura delle vocazioni al sacerdozio ordinato, ancora  oggi fondamentale e imprescindibile. Il Concilio di Trento ha  rappresentato uno degli snodi più significativi della storia della  Chiesa perché, raccogliendo e canalizzando gli impulsi positivi  provenienti da vari ambienti del mondo cattolico, dette concretezza e  sistematicità a un anelito alla riforma della Chiesa largamente  condiviso attivando la formazione di un modello ecclesiale, destinato a  durare nei secoli, che doveva cominciare con un cambiamento radicale che  investisse innanzitutto i pastori, cioè i vescovi e i sacerdoti. Le  emergenze su questo fronte erano numerose, relative alla residenza,  all’assegnazione dei benefici ecclesiastici, alla cultura, al celibato  e, più in generale, alla moralità e alla spiritualità dei chierici e,  per quanto riguarda i vescovi, all’obbligo della cura pastorale e  spirituale (anche catechetico e omiletico) del gregge a essi affidato.
A  Trento ci si sforzò di affrontarle mediante decreti dottrinali che  precisavano – segnatamente sia in risposta alle affermazioni di Lutero e  degli altri “riformatori”, sia nel rilancio delle tante istanze di  riforma presenti nell’episcopato europeo – la sostanza teologica di  alcuni elementi cardine della fede cattolica, e di riforma, per fornire  soluzioni il più possibile concrete alle varie urgenze della vita  ecclesiale, attraverso esortazioni e prescrizioni canoniche. Come ha  osservato il grande storico del Concilio di Trento circa la rivoluzione  protestante, Hubert Jedin, «la crisi dello scisma è stata in ultima  analisi la crisi della formazione sacerdotale». Di questo dato i Padri  conciliari dovevano avere contezza. La consapevolezza che la riforma, a  questo livello, sarebbe dovuta essere insieme spirituale e strutturale  si fece tuttavia strada lentamente nella loro mente e nel loro cuore. Si  può dire che il tema abbia tagliato trasversalmente il Concilio. La  questione era subito emersa nella IV sessione, allorché i Padri  tridentini avevano discusso dell’obbligo per i parroci di predicare  almeno nelle domeniche e nei giorni di festa, stante la pressoché totale  disattenzione per la predicazione (spesso delegata agli ordini  religiosi) e per la catechesi (con casi di analfabetismo religioso).
La  Chiesa aveva avvertito anche prima di Trento lo scrupolo di provvedere  alla formazione presbiterale, elaborando, di volta in volta, soluzioni  idonee a far fronte ai bisogni dei tempi. Non a caso, diversi Pontefici  avevano indetto concili in materia. Si erano sviluppate forme  strutturate di formazione dei chierici a seconda dei tempi e dei luoghi.  Erano così nate le varie scuole connesse ai monasteri, alle parrocchie e  alle cattedrali. I Padri tridentini poterono avvalersi del confronto  con alcuni modelli istituzionali già esistenti, dei quali ricalcare la  fisionomia per il nuovo istituto che stava per nascere, come chi  accoglieva i giovani poveri, di età compresa tra i 15 e i 35 anni, che  intendevano accedere alla vita ecclesiastica, provvedendo alla loro  istruzione nel diritto canonico e nella teologia e alla loro formazione  spirituale e disciplinare. Poi i due collegi fondati a Roma da  sant’Ignazio di Loyola, rispettivamente nel 1551 e 1552: il Collegio  Romano, che si presentava come «scuola di grammatica, di humanità e di  doctrina christiana» e impartiva gratuitamente ai suoi alunni la  formazione culturale e spirituale, conservando sostanzialmente  l’impianto tipologico dei collegi universitari; il Collegio Germanico,  che nasceva invece con la specifica finalità di formare il clero tedesco  (maggiormente colpito dalla ventata protestante) secondo la più rigida  ortodossia cattolica e contemplava nei suoi regolamenti l’introduzione  della figura decisiva del padre spirituale, che avrebbe coadiuvato il  rettore e i confessori nell’opera formativa. Ma le più interessanti  indicazioni dal punto di vista teorico giunsero però dal sinodo  nazionale pro reformatione Angliae,  convocato nel 1555 a Londra dal cardinale Reginald Pole. Tra i decreti  di questa assise non solo compariva il termine “Seminario”  nell’accezione che Trento avrebbe conservato, ma veniva imposto a ogni  diocesi di costituirlo. Il decreto tridentino sui seminari, Cum adolescentium aetas,  fu discusso e approvato all’unanimità dai vescovi nella XXIII sessione  (15 luglio 1563: canone 18 del decreto di riforma). La decisione di  imporre alle diocesi l’apertura del seminario – chiamato a configurarsi  come una sorta di perenne vivaio vocazionale – era sostenuta, come  manifesta la premessa del testo, da motivazioni di carattere teologico e  pedagogico insieme. Bisognava avviare allo stato clericale i giovani  candidati, «prima che le cattive abitudini si impadroniscano  completamente dell’uomo» e la capacità di perseverare nella disciplina  ecclesiastica ne risultasse compromessa. Il Concilio stabilì così che  nei seminari dovessero essere ammessi «i ragazzi di almeno dodici anni,  nati da legittimo matrimonio, sufficientemente capaci di leggere e di  scrivere e la cui indole e volontà faccia sperare della loro perpetua  fedeltà ai ministeri ecclesiastici.
Il Concilio vuole che si  scelgano soprattutto i figli dei poveri, senza però escludere i figli  dei ricchi, purché si mantengano da sé e dimostrino impegno nel servizio  di Dio e della Chiesa». Dopo i criteri di ammissione, molto  interessanti dal punto di vista pedagogico, il decreto tratteggia i dati  essenziali di un programma formativo che abbraccia i vari ambiti del  ministero ecclesiastico (disciplinare, culturale, liturgico, spirituale,  morale e pastorale), lasciando comunque ai vescovi ampio spazio  d’integrazione e d’intervento locale: «Il vescovo curerà che assistano  ogni giorno al sacrificio della Messa, che si confessino almeno ogni  mese e ricevano il corpo del nostro Signore Gesù Cristo quando il  confessore lo giudicherà opportuno, e che nei giorni festivi prestino il  loro servizio in cattedrale e nelle altre chiese del luogo. Tutte  queste cose, insieme ad altre opportune e necessarie a questo scopo, i  singoli vescovi le stabiliranno assistiti dal consiglio di due canonici  tra i più anziani e i più seri, che essi sceglieranno, secondo  l’ispirazione dello Spirito santo, e provvederanno con visite frequenti a  farle sempre osservare». Queste disposizioni organizzative e  disciplinari occupano all’incirca la metà del testo. Nel prosieguo si  tratta quasi interamente del reperimento dei fondi necessari al  mantenimento del Seminario, attraverso la tassazione dei vari benefici  ecclesiastici. Può stupire una simile preponderanza della questione  economica nel decreto e ci si potrebbe chiedere come mai i Padri  conciliari abbiano insistito tanto sull’aspetto materiale e non  piuttosto sulla spiritualità e sulla formazione, cioè le vere emergenze.  In molte diocesi l’istituzione Seminario decollerà soltanto dopo  decenni di tentativi più o meno fallimentari e, da qualche parte,  addirittura a ben più di un secolo di distanza dalla chiusura del  Concilio. Una delle più frequenti cause – se non la principale – di tale  ritardo fu proprio la penuria di mezzi economici, e perciò  l’impossibilità per le diocesi di sovvenire alle necessità del  Seminario. Istituendo i Seminari, il Concilio di Trento ha consegnato  alla Chiesa un’importante eredità, su cui non a caso insisteranno tutte  le successive Relationes ad limina, e che  sarà ribadita prima e dopo i due Concili contemporanei. Il Vaticano II,  infatti, ne ha ribadito la necessità, quale luogo in cui «tutta  l’educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare veri  pastori d’anime, sull’esempio di nostro Signore Gesù Cristo maestro,  sacerdote e pastore». A 450 anni di distanza, il Seminario appare ancora  uno strumento indispensabile per la cura e la promozione delle  vocazioni al sacerdozio.
Molte cose, è ovvio, sono cambiate da  allora, sia nella società che nella famiglia e nella Chiesa. Ciò vale  particolarmente per il nostro tempo di rapidi mutamenti culturali,  sociali e antropologici. Se è vero, quindi, che il Seminario in quanto  tale resta una struttura e una risorsa essenziale per la vita della  Chiesa, è altrettanto vero che la riflessione sui vecchi e nuovi  problemi della formazione sacerdotale – in particolare: la disciplina  interna e le forme d’interazione tra Seminario e vita diocesana e  cittadina – è e continuerà a essere necessaria e urgente, nella  consapevolezza che la vera riforma della Chiesa deve partire sempre dal  suo interno: dai presbiteri e dai consacrati, quindi anche da coloro che  nei Seminari si preparano ad esserlo «all’altezza dei tempi». Fare  memoria allora, non è una nostalgica laus temporis,  ma è una attualizzazione del passato per salvarlo dall’oblio.  Esattamente mezzo secolo fa, Hubert Jedin scriveva: «Il Seminario  tridentino è stato una creazione nuova, non ben precisata sotto ogni  riguardo, circa la quale non si potevano avere ancora esperienze.  Bisogna dunque tanto più apprezzare la lungimiranza e il coraggio dei  Padri conciliari, i quali indicarono la nuova via della formazione  ecclesiastica. Il Seminario doveva – e deve anche nei nostri giorni –  adattarsi alle esigenze concrete dei tempi, perché solo così può  mantenere e tramandare lo spirito nel quale è stato creato dai Padri del  Concilio di Trento».
Vincenzo Bertolone - Arcivescovo di Catanzaro-Squillace
© Avvenire, 17 luglio 2013
            