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Sette anni con Benedetto: un Papa capace di stupire

L'Anniversario. È uno dei Papi più "vecchi" della storia. Qualche acciacco, e ci mancherebbe altro, a ottantacinque anni, ma niente di più. Ma una voglia intatta di innovare, ascoltare, spiegare. Con la quieta passione, mai appariscente, e con la profondità che fanno da ordito e trama al tessuto del suo carattere. E con un’intatta, continua capacità di stupire. Ogni volta.

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Alla boa del settimo anno di pontificato, è proprio questa capacità di stupire che continua a marcare il ministero di Benedetto XVI. Anche di fronte alle crisi, anche di fronte ai passaggi più delicati, papa Ratzinger non ha mai perso la sua capacità di fare il passo capace di lasciare senza parole anche i critici più pervicaci. Come quando, con una battuta con i "suoi" seminaristi di Roma – «Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, speriamo che si parli anche della nostra fede... e preghiamo il Signore, perché possiamo fare così che si parli non di tante cose, ma si parli della fede della Chiesa di Roma» – ha liquidato le chiacchiere più o meno da bar sulla sua salute o su pretesi "complotti". O quando, su tutt’altro versante, nel celebrare lo scorso ottobre il venticinquesimo anniversario del primo incontro delle religioni  ad Assisi, lui, il Papa che, raccontavano alcuni, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede era il più critico su quella scelta di Giovanni Paolo II, nel riconvocare nella città di San Francesco i leaders religiosi mondiali ha voluto aggiungere alla lista anche i non credenti. In tal modo non solo confermando, ma rilanciando l’intuizione di papa Wojtyla in una dimensione ulteriore, adatta più e meglio di prima ad interpretare le esigenze di un tempo in cui sempre più le religioni dimostrano di avere un ruolo chiave nello sviluppo.

Anche per questo, ed è l’altra cifra che continua con sempre maggior forza a segnare il suo magistero, Benedetto XVI non perde occasione per ribadire la necessità assoluta, l’urgenza imprescindibile che l’Europa, e l’Occidente in generale, ritrovino nella fede che sta alle loro origini le ragioni e le motivazioni per costruire il futuro. In questo senso, il viaggio in Germania dello scorso settembre è stato un passaggio davvero illuminante, con il suo richiamo – forte, aspro quasi, comprensibile forse solo ricordando che parlava ai suoi connazionali – a guardare alle radici della fede, e non soltanto a una buona, pur efficientissima, organizzazione ecclesiale. Perché questo è il solo modo in cui i cristiani possono giustificare la loro presenza e il loro voler partecipare ai processi sociale; e a chiederlo non sono solamente le spinte della crisi, che pure rischiano di capovolgere ogni scala valoriale, ma, appunto, anche il futuro equilibrio di un mondo che, in molti modi, dimostra di avere "sete" di religioni.

Non è un caso, in questo senso, che la Giornata della Gioventù dello scorso agosto, a Madrid, si sia, anche questa, rivelata in assoluto sorprendente. Un appuntamento che papa Benedetto ha in un colpo solo tirato fuori dal rischio di farlo cadere in una ripetitività rituale per trasformarlo con pochi tocchi – l’incontro con i giovani sacerdoti, le confessioni raccolte personalmente... – in un qualcosa di significativamente "altro", segno di una comunità matura, ancorché di giovani, chiamata a ispirare e costruire una nuova presenza della Chiesa.

In una recente intervista a Korazym, monsignor Georg Gänswein, il segretario del Papa, osservava che «l’immagine che già da cardinale e poi, con un piccolo intervallo, anche come Papa, di Benedetto XVI è stata offerta, è in buona parte una distorsione» operata dalla stampa, non solo di lingua tedesca ma nel mondo, soprattutto di lingua inglese, sia in Gran Bretagna che in America del Nord, e «parzialmente anche in paesi di lingua francese e alla fine anche in Italia»; distorsione che «ha creato quasi una caricatura sia della persona che delle sue idee». Ripensando, in questo anniversario, anche solamente poche cose che abbiamo appena ricordato, sembra proprio che questa affermazione di Gänswein non possa che essere condivisa. E, aggiungiamo, sarebbe ora che qualcosa cambiasse.

Salvatore Mazza

 

© Avvenire, 19 aprile 2012

 

La sintonia che dà futuro

 

Il magistero di Benedetto XVI ha avuto, e ha, un contenuto antropologico speciale, essendo diretto all’uomo di oggi, con le sue aspirazione e ansie, le conquiste che realizza, le sconfitte che patisce. Papa Ratzinger – vale la pena di rifletterci in questo giorno anniversario della sua elezione al soglio di Pietro – ha esaltato l’universalità della funzione petrina approfondendo il ruolo centrale che il rapporto tra fede e ragione svolge per aiutare l’uomo a realizzare le idealità più profonde, nella costruzione del suo cammino storico.

Con l’enciclica Spe salvi del 2007 il Papa parla della fede che elimina la paura, soddisfa il bisogno di trascendenza che esiste nel cuore dell’uomo, promette la vita eterna. Ma il Vangelo, aggiunge, non comunica solo ciò che si può sapere, il Vangelo «è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente, gli è stata donata una vita nuova» (n. 2). La fede trasforma l’uomo, può cambiare il mondo: è questo il messaggio di speranza che Benedetto XVI trasmette nei suoi viaggi tra i popoli, negli incontri con i rappresentanti degli Stati, nella catechesi dentro e fuori San Pietro. La fede in Dio, l’incontro con Gesù, dona a ognuno di noi una solidità interiore che da soli non abbiamo, rende capaci di aprirsi agli altri, diffondere amore anziché egoismo, alleviare le sofferenze, mutare le barriere che dividono in confini aperti, che avvicinano gli uomini.
Se la fede trasfigura l’uomo, la ragione svolge un ruolo decisivo, perché essa è «il grande dono di Dio», lo strumento con il quale l’uomo può crescere e conoscere l’universo che lo circonda. Ma la ragione ha dei limiti che i filosofi di tutti i tempi avvertono, non dà una conoscenza perfetta, perché ciò implicherebbe un intelletto assoluto, ha bisogno di un orizzonte più ampio che la spinga verso il bene. Per Benedetto XVI, fede e ragione sono complementari, devono integrarsi, l’equilibrio si realizza quando la ragione si apre «alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana» (Spe salvi, n. 23). Il magistero del Papa è ricco di gioia e di speranza, perché la fede non umilia né frena la ragione, ma la potenzia, la aiuta a scegliere il bene; solo la scissione della ragione dalla fede fa perdere il cordone ombelicale con la visione d’amore e solidarietà che il cristianesimo ha introdotto cambiando il corso della storia.

Nell’accordo tra fede e ragione l’uomo è in grado di conoscere e comprendere i fondamenti della legge naturale, e su di essi può costruire un ordine giusto che si fondi sui diritti umani, la cui origine è nella concezione evangelica della giustizia. Sulla scia dei suoi predecessori, Benedetto XVI è il pontefice che più ha impegnato il magistero della Chiesa nella difesa e promozione dei diritti umani, della loro universalità, diffondendone il significato tra i popoli, chiedendone l’attuazione agli Stati e ai legislatori, invocando il rispetto di quella libertà religiosa che in tante parti del mondo è violata con persecuzioni e violenze, soprattutto nei confronti dei cristiani. In virtù di questo impegno, il Papa avverte il rischio che i diritti umani siano sviliti e declassati per il relativismo che si diffonde come un veleno in alcune correnti del pensiero moderno. Egli è consapevole che non si può essere relativisti assoluti: quando si eleva l’arbitrio individuale a guida dell’agire si oscura l’orizzonte dei diritti umani, si nega il loro fondamento ontologico.

Nel settembre 2010, al bureau dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Benedetto XVI ha ricordato che, «tenendo presente il contesto della società attuale, nella quale si incontrano popoli e culture differenti, è imperativo sviluppare sia la validità universale di questi diritti, sia la loro inviolabilità, inalienabilità e indivisibilità». Di qui i rischi che si proiettano nel campo dei valori, dei diritti e dei doveri: «Se questi fossero privi di un fondamento razionale, oggettivo, comune a tutti i popoli, e si basassero esclusivamente su culture, decisioni legislative o sentenze di tribunali particolari, come potrebbero offrire un terreno solido e duraturo per le istituzioni sopranazionali?». Oggi ci si rende conto che relativismo e nichilismo nascono nella solitudine del pensiero, nell’assenza di amore e passione per l’uomo, nell’appagamento affannoso di interessi e piaceri transitori. Nel magistero del Papa che illumina il mondo, la sintonia tra fede e ragione rafforza l’uomo, lo guida nella ricerca della verità, gli permette di realizzare appieno le sue aspirazioni più alte.


Carlo Cardia
 
© Avvenire, 19 aprile 2012
 
 

Tonini: la fede semplice di un finissimo teologo

 

Lo conosceva da ben prima che diventasse Papa. Negli anni Ottanta Joseph Ratzinger per Ersilio Tonini era, oltre che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, quel cardinale tedesco dalla espressione mite che non mancava mai nei seminari e negli incontri in Vaticano; sempre attento, gentile e però di poche parole, come uno che amasse ascoltare, più che dire la sua. Il cardinale Tonini, arcivescovo emerito di Ravenna-Cervia, quest’anno a luglio compie 98 anni, e dunque per lui Ratzinger potrebbe essere un fratello di non poco più giovane. Ma, ad ascoltare i suoi ricordi, si coglie una simpatia, quasi una affinità tra i due; tra Tonini, nato in una cascina del Piacentino, figlio di contadini, e il Papa, venuto al mondo in un piccolo paese della Bassa Baviera, figlio di un gendarme ma erede a sua volta di una famiglia di agricoltori. «Mi piaceva – ricorda il cardinale – quella sua mitezza, e la amabilità da tedesco del Sud. E il tratto spontaneo delle amicizie che sapeva stringere. Una volta fui incaricato di tenere delle meditazioni davanti alla Curia romana. Ogni tanto, conoscendo la lingua tedesca, ne usavo qualche parola. Lui allora dalla platea mi sorrideva, come a incoraggiarmi, o forse contento di sentire pronunciare la sua lingua natale». O forse quei due avevano già in comune un’altra lingua, nella fede popolare ereditata da madre e padre: profonda, tenace in ogni frangente o prova.

Nel 2005 Tonini era già ultraottantenne, quindi non più cardinale elettore. Presente però alle sedute preliminari del Conclave, in cui il cardinale decano Ratzinger preparava i confratelli al voto. «Davanti all’assemblea – ricorda – tratteggiò un sintetico quadro della situazione della Chiesa universale e delle sfide che il nuovo Pontefice avrebbe dovuto affrontare. Io lo ascoltavo e consideravo quanto era competente e misurato e lucido il suo intervento; e fra me mi dicevo: l’eletto, potrebbe ben essere lui».
Infatti. Sono passati sette anni. Ieri Tonini ne ha festeggiato ben 75 di sacerdozio: fu ordinato il 18 aprile 1937, quando Ratzinger aveva appena compiuto i suoi dieci anni. (Dà le vertigini, un testimone così antico, uno dei pochi per i quali il Papa, coi suoi 85 anni, è quasi giovane). Nel silenzio dell’Istituto Santa Teresa di Ravenna Tonini racconta ancora: «Un uomo mite, sì; però, coraggioso. Uno che non ama i toni roboanti, ma dice, e dice netto. Come ha dimostrato nell’affrontare il dramma della pedofilia nella Chiesa. Con parole chiare ma non di accusatore, anzi intrise di una tonalità dolorosa».

«Già negli anni Ottanta – continua il cardinale – mi aveva colpito uno dei suoi primi libri, Introduzione al cristianesimo, per la limpidezza della logica e della scrittura, priva di ogni artificio retorico. Il medesimo stile che ho ritrovato nel Gesù di Nazaret; accompagnato nello stesso tempo da una grande profondità teologica».

Eminenza, quei due volumi dedicati a Gesù sembrano trovare un incipit ideale nelle prime righe della prima enciclica, la Deus caritas est, in cui il Papa scrive: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un Avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte». Pare di leggervi la urgenza di testimoniare di nuovo agli uomini la concreta storicità di Gesù, e di ciò che è narrato nei Vangeli.

Tonini: «Sì, è questo il nucleo fondante del cristianesimo in ogni tempo, e che però ogni generazione ha bisogno di sentirsi di nuovo testimoniato. La nostra generazione, dopo il positivismo, dopo il razionalismo, ancora di più. Per questo nel 2005 alla Chiesa non sarebbe bastato un uomo pio, ma occorreva qualcuno che avesse il polso, la percezione esatta della situazione storica, delle sfide del terzo millennio: perché poi il cristianesimo deve incarnarsi, deve farsi, sempre e di nuovo, storia di uomini».

Quel professore e teologo di poche parole, quel cardinale, testimonia il cardinale, «molto ascoltato e prediletto da Giovanni Paolo II», veniva a ricordare ancora agli uomini la verità antica. Tonini: «Prima di altri, forse prima di un italiano, un Papa proveniente dalla Germania ha potuto rendersi conto del livello di secolarizzazione che cresceva in Europa, della necessità di ridire la fede con parole comprensibili oggi; che è poi il grande sforzo di tutta la sua opera. Quell’appassionato coniugare fede e ragione che ci ha insegnato a Ratisbona; lo splendido discorso alla intellighentia laica della Francia al Collegio dei Bernardini, nel 2008, quando paragonò il nostro tempo a quello del discorso di Paolo all’aeropago. Quando disse che se anche oggi le nostre strade non sono più piene di immagini di déi molteplici, per molti ugualmente oggi Dio è uno sconosciuto (e come allora, disse il Papa, «l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui»).

«Quaerere Deum», dunque, come ripeté il Pontefice a Parigi, nella urgenza esistenziale invocata in quell’antico convento che è tra le radici dell’Occidente cristiano. Cercare Dio con fede e ragione, avvertendo, in un filo ideale che prosegue nella Caritas in veritate, che la ragione senza la fede è destinata a perdersi nella illusione della sua onnipotenza. Un tema questo molto caro a Tonini, appassionato osservatore dei temi della bioetica e della fecondazione artificiale, in cui sempre avverte una «ubris», una sfida alla natura dell’uomo: al suo essere creatura. («È, vede – spiega – l’eco di una simile provenienza culturale, popolare e profondamente cristiana, la ragione per cui Ratzinger, pure straniero, mi è sempre sembrato così familiare»).
Una matrice cristiana ereditata da secoli di tradizione, cosa che per Tonini spiega anche un carattere fondamentale di questo Papa: «È un uomo che non ha paura; è fiducioso in Dio e nella Chiesa, confida fermamente nella Provvidenza».

Le tracce di queste origini tornano per Tonini anche nella scelta del curato d’Ars come modello per l’Anno Sacerdotale: «Guardi quel parroco, quell’umile prete di campagna, che coscienza illuminata e profonda custodiva in sè. Vede come le radici di Ratzinger riaffiorano costantemente nel suo pontificato?»
Il Papa con secoli di fede popolare alle spalle è anche, però, quello che nella Spe salvi si domanda, e ci domanda, quasi provocatoriamente, se la speranza cristiana davvero opera ancora in noi, se davvero è tanto concreta da sapere già trasformare il tempo presente.... Tonini: «È ancora, questa, l’urgenza che quest’uomo avverte, l’urgenza di annunciare che oggi, ancora, tutto è vero: vera la nascita, la morte e la resurrezione. L’urgenza di dirlo a noi, uomini di un tempo di enormi sfide. Vede, davvero lo Spirito soffiava nel Conclave: occorreva un cristiano così, teologo eppure semplice, professore e però figlio del popolo. Uno di quelli, personalmente ne sono convinto, particolarmente cari a Dio: perché si fidano di lui, e non hanno paura».

 
Marina Corradi
 
© Avvenire, 19 aprile 2012