Arcivescovo

S.E. Giuseppe

Satriano

IN AGENDA

Totò principe e la marionetta Pulcinella

I racconti del buonumore 25

ima-sorriso.jpg

Non ho fatto niente. Sarei potuto diventare un grande attore e invece, fra i cento e più film che ho girato, di degni non ce ne sono più di cinque. Ma anche se fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo soli venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, anche dopo di lui». Un bilancio duro al termine di una vita intensa, un grande interprete che aveva saputo portare sul palcoscenico una città straordinaria, unica per le sue contraddizioni, che ora, ormai cieco, alla fine della sua vita, faceva i conti con se stesso, non riconoscendo la sua formidabile grandezza. Antonio De Curtis, in arte Totò, artista di immenso valore, che per miopia di una critica ingessata, fu scoperto e riconosciuto solo dopo la sua morte, con la sua simpatia, la sua geniale ironia, la sua arte mimica, l’invenzione del suo linguaggio paradossale aveva saputo trasformare i pregi e i difetti della gente di Napoli in risorsa da raccontare. Aveva sdoganato i poveri e gli ultimi dai margini di una letteratura pietistica e commiserevole elevandoli a protagonisti della scena e facendo raccontare dagli sguardi arguti, dalle caricature dei bassi, dalle marionette del vicolo la vita nella sua fragrante e sconcertante verità cucendo insieme, con arte antica, propria di menestrelli e cantastorie, la risata fragorosa e l’amaro pianto.

Totò, come Napoli, portava nella sua arte, quasi nelle sue viscere, l’effervescenza gioiosa del comico e uno strategico linguaggio capace all’improvviso di rilanciare la tragicità del vivere e mostrava la tragicità dell’essere nella sua cruda evidenza senza compromessi per sopportare la vita con la forza bonaria dell’ironia. Totò, nobile e plebeo, principe e popolare, un attore-città che come Napoli è troppo grande, tanto da non accorgersi del suo valore, del suo talento, tanto da passare velocemente dalla considerazione di se stesso, la sua felice possibilità, alla sua tragica commiserazione. Nascere è da subito origine collocata. E se nasci a Napoli, lo è di più. Nessuno me ne voglia, se penso che qui da noi, a differenza di altri posti, la città s’intromette prepotentemente nel Dna di chi, per caso o per volere di Dio, viene alla luce nelle sue mura. Sei così legato alle tue origini, alle tue radici, che la napoletanità ti si attacca addosso dalla culla alla tomba, e perfino all’altro mondo. Nel bene e nel male è la tua terra e Totò, come gli altri che non mentono sulla propria origine, che non rinnegano le radici, è costretto a portarsela addosso. Costretto non in senso negativo, come sapore amaro, come camicia di forza imposta dal destino, ma nel senso che non hai scelta, benché vorresti a volte fuggirla, ti resta appiccicata addosso.

È forse questo il limite di Totò? Può essere il peccato originale della sua arte che per passare una cultura gigantesca, fatta di un patrimonio inestimabile, ma rassegnata, finisce per ricadere in luoghi comuni, uguali a quelli che fa fatica Napoli a scrollarsi da dosso? Antonio De Curtis non si è fermato alla maschera di Pulcinella, servo burlone sempre affamato, pronto all’imbroglio per sopravvivere, furfante bonario per combattere la malasorte, l’ha superata, l’ha trasformata quella maschera inventandone una tutta nuova che meglio racconta di un popolo che non può trovare alibi, che non può trincerarsi dietro la miseria e la povertà per giustificare la mancanza di valori morali, ma che deve sempre saper praticare la via della giustizia, e comunque cercare l’altezza della propria dignità in ogni condizione.

Sulla scena Totò mostra intatto il profilo dell’uomo e proprio perché finge ma non nasconde, recita ma non tradisce il vero, consegna a chi lo ascolta, e osserva, la sua triplice condizione di comico, di poeta, di principe. E come Napoli, una e molteplice, offre a chi vive la sua storia la sua semplice e pervasiva complessità. Comico che non significa per niente solo far ridere, quanto piuttosto usare un metodo linguistico per passare con una propria tonalità la verità che si vuole raccontare, il gusto difficile del prendere e prendersi in giro per segnare il confine tra una battuta e la parola penetrante.

Totò superava il suono delle parole e comunicava con gli occhi scuri e penetranti, profondi che si perdevano al di là del viso intorno a quel mento un po’ sghembo che accompagnava il ragionamento. I suoi personaggi, tanti, conservavano un tratto comune, la profonda umanità; le sue così dette spalle, amici e colleghi, non erano mai abbandonate al ruolo di subalterni, ma secondo le loro capacità, lasciati liberi di inventare come faceva lui, divertendosi e commuovendosi, improvvisando sulla scena.

Come dimenticare la famosa lettera che Totò detta a Peppino De Filippo, o Totò truffa con Nino Taranto, il falsario, il prete, i grandi attori che con lui hanno recitato da De Sica a Eduardo e Titina De Filippo, da Macario a Aldo Fabrizi e Carlo Croccolo. Come non ricordare lo sguardo commosso di Fra’ Ciccillo in Uccellacci e uccellini di Pasolini, che intanto aveva scoperto Totò, mentre racconta a san Francesco la missione di convertire i falchi al Vangelo. Un grande poeta che mai avrebbe abbandonato il suo verso e raccolta la sfida di dare alla parola il colore e il calore della carezza è tale nei versi della Livella, straordinario apologo dell’uguaglianza dinanzi alla morte, o nelle appassionate note di un amore finito male di Malafemmena, o ancora la struggente Rosa Maggese che dipinge la sua Napoli. Comico, poeta e principe riconosciuto per nascita, geloso del titolo ereditato e per questo a volte tragicamente criticato per la sua maniacale necessità di sentirsi così chiamato fuori di scena. Ma così è Napoli in cerca come lui della sua nobile origine, avvertita da tanti, da troppi considerata decaduta. Totò la rivendicava puntigliosamente per se stessa, gelosamente la custodiva quasi a voler ricordare che il comico, l’attore, avrebbe dovuto recitare sulle tavole sudate dei teatri o dinanzi alle macchine da presa, ma mai rinunciare al coraggio dei suoi convincimenti ancor di più se per nascita sei stato per troppo tempo lasciato al disonore di una paternità o maternità incerta e ora finalmente hai ritrovato le tue radici.

Totò tuttavia era nobile davvero oltre il titolo: pochi sanno che molto spesso andava nella Sanità dove era nato, quartiere di stenti nel cuore di Napoli, e di nascosto da sotto le porte dei miseri bassi, abitati da gente poverissima, faceva passare una carta di mille lire, una fortuna allora. Qualcuno pensava che fosse un dono del munaciello, fatata figura di angelo della casa, ma molti sapevano il vero: Totò cercava casa nelle case della povera gente. Attore straordinario, ultimo, con Eduardo, della Commedia dell’Arte consegna alla città di Napoli e alla storia del cinema mondiale la rivendicazione di uno stile che non muore, di una parola che non invecchia, di una verità che non appassisce: si può ridere o piangere, se si racconta l’uomo, nella verità della sua vita, si fa vera arte.


 
Gennaro Matino
 
© Avvenire, 30 agosto 2012