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Credo che continueremo ancora a discutere sul gesto compiuto dal card. Konrad Krajewski. Ricordiamo il fatto:il cardinale, sabato scorso, ripristina la corrente in un palazzo con 450 persone, a Roma. Il porporato si difende affermando: "E' stato un gesto disperato". In un’altra intervista aggiunge: «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi». Non l’ho fatto perché sono ubriaco»

Da queste e altre parole comprendiamo che è stata una scelta in coscienza. Da quando sono sbarcati i primi albanesi la nostra terra ha visto molti operatori umanitari compiere gesti estremi, a favore di poveri e migranti, in alcuni casi anche contro alcune leggi vigenti. Gesti che la letteratura classifica come “disobbedienza civile”. Non è facile descriverla: ci sono una molteplicità di fattori personali, sociali, politici sia favorevoli che contrari. Partiamo dagli elementi di base: la coscienza e l’emergenza umanitaria. L’etica cattolica insegna che la coscienza, matura e responsabile, valuta situazione, mezzi e finalità del proprio agire. I fatti, così come li conosciamo, ci portano ad affermare che il cardinale sia intervenuto per soccorrere quanto prima, in stato di emergenza, piccoli e ammalati fortemente compromessi dalla mancanza di energia elettrica. Il modo è quello, estremamente corretto, di aver prima sollecitato, ancora una vota, l’intervento delle istituzioni pubbliche locali, di essersi assunta la piena responsabilità del gesto (vedi biglietto da visita lasciato sul luogo e dichiarazione successiva), la disponibilità a sanare economicamente la situazione.

Tutto ciò è tipico della disobbedienza civile: per motivi umanitari gravi andare contro una legge, ma non contro l’autorità, assumendosi le relative responsabilità. Non a caso Tommaso d’Aquino afferma che “Se la necessità è così urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano, come quando una persona versa in tale pericolo, da non poter essere soccorsa diversamente, allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui. E l'atto per questo non ha natura di furto o di rapina” (Summa TheologiaeII-II, 66, 7). 

Anche dal punto di vista civile il gesto del cardinale potrebbe essere giustificato anche penalmente, in virtù dell’art. 54 del Codice penale che rende non punibile chi commette atti in casi di necessità per salvare altri da pericoli gravi e imminenti.

Il gesto eticamente ha quindi, dalla sua parte, molte giustificazioni; tuttavia resta il fatto che ci siano degli elementi di problematicità, specie nei suoi risvolti istituzionali ed ecclesiali. Il commento del card. Parolin è stato molto chiaro: «Ho visto che ci sono state tante interpretazioni e tante polemiche. Personalmente credo che lo sforzo dovrebbe essere quello di capire il senso di questo gesto, che è attirare l’attenzione di tutti su un problema reale, che coinvolge persone, bambini, anziani».

Ho letto molti commenti, diverse polemiche e poche “attenzioni”, specie da parte cattolica. Il cardinale è pronto a prendersi tutte le responsabilità del gesto. Ora le nostre attenzioni si devono spostare dal caso al problema. Nelle nostre città ci sono purtroppo molti poveri, stranieri o italiani che siano, dimenticati e in gravi condizioni. Pochi volontari civili e ecclesiali svolgono un immane lavoro di assistenza. Non sempre, però, il loro esempio contagia la comunità civile ed ecclesiale, per non parlare di quella politica, visto il crescente razzismo e senso di rifiuto verso chi è nel bisogno. Mi è tornato in mente lo sbarco degli albanesi, nell’agosto del 1991. Tra i tanti volontari e autorità (i vescovi Magrassi e Bello, il giudice Magrone, il sindaco Dalfino) voglio ricordare un parroco, Nicola Ludovico, che si presentò al porto e offrì ospitalità a due albanesi. Fu un gesto semplice, ma profondamente educativo per la sua comunità di Casamassima. Come direbbe la Arendt: le sue parole (pochissime) servirono non “per nascondere le intenzioni ma per rivelare realtà” e il suo gesto fu un esempio trascinante “per stabilire nuove relazioni e creare nuove realtà”. 

Rocco D'Ambrosio, ordinario di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana di Roma

© Repubblica Bari, giovedì 16 maggio 2019, p. 7

 

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