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Ucraina. Ricchiuti (Pax Christi): «Il governo promuova un tavolo di pace»

L'arcivescovo: le armi cedano il passo alla diplomazia. «Se potessi parlare a Putin, gli direi di fermarsi. Ma la strada che stiamo seguendo da 10 mesi è davvero la giusta soluzione?»

Quattro tappe. Covid, cura, obiezione e pane. Ma una sola marcia, quella di Altamura, e un messaggio unico. «È tempo di fare pace». Si presenta con questo volto l’ormai tradizionale appuntamento itinerante organizzato da molte realtà del mondo cattolico, insieme con la Cei, al passaggio dell’anno. Sì, è tempo di pace, perché, fanno notare gli organizzatori, dieci mesi di guerra in Ucraina non hanno portato a nulla se non a decine di migliaia di morti, distruzioni ingenti e milioni di profughi. E allora il presidente di Pax Christi e arcivescovo-vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, alza la voce per invocare ancora una volta: «Fermatevi. Le armi cedano il passo alla diplomazia».

Eccellenza, è un caso che in questo Natale e Capodanno di guerra la marcia della pace si svolga in Puglia, terra di don Tonino Bello?

Diceva il mio successore come rettore del Seminario regionale di Molfetta, don Tonino Ladisa, che “non ci sono coincidenze, ma solo provvidenze”. E allora è provvidenziale che accanto al sinistro risuonare delle voci di guerra si faccia memoria di due voci a favore della pace. Don Tonino Bello, appunto. E san Giovanni XXIII. Nel 2023 vivremo importanti anniversari legati a loro: 60 anni dalla Pacem in Terris e 30 anni dalla morte di don Tonino. È provvidenziale che accanto al terrore nucleare, ci sia una voce – quella della Chiesa e dei credenti e di tanti uomini e donne di buona volontà - che si leva per dire “fermatevi, che tacciano le armi e si torni intorno a un tavolo. In nome dell’umanità e del Dio della pace”.

Fermatevi a chi viene detto? Non c’è il rischio di mettere sullo stesso piano aggressori ed aggrediti?

Se potessi parlargli, direi innanzitutto a Putin di fermarsi. Ma è un invito che rivolgo anche ai Paesi cosiddetti amici dell’Ucraina. Si pensi alla pace e non solo all’invio delle armi. Questo non significa negare l’evidenza: c’è un aggressore e un aggredito. Ma la strada che da dieci mesi si sta seguendo è la vera soluzione? Fermatevi lo diciamo a Putin, principalmente, ma anche ai nostri Paesi che hanno pensato soltanto nell’invio delle armi. È di qualche giorno fa la telefonata tra la premier italiana Giorgia Meloni e il presidente Zelensky. Non mi sembra che si sia parlato di molto altro.

Lei che cosa propone?

Vorrei lanciare un appello alla presidente del Consiglio. Che si faccia promotrice di pace. Che sia una donna di pace. Che promuova l’Italia come un Paese che sappia mettere intorno a un tavolo i contendenti per dialogare e per arrivare a una pace giusta. Che bello sarebbe se il governo italiano fosse coraggioso e audace nel prendere un’altra strada rispetto alla semplice fornitura di armi. Dobbiamo essere portatori di una visione. E in questo siamo in piena sintonia con Papa Francesco quando dice che la guerra e follia e sacrilegio. Certo, c’è differenza tra chi ha lanciato per primo la pietra e chi si è difeso con altrettante pietre. Ma possiamo continuare a lanciarci le pietre? Non sarebbe meglio deporle? In nome dell’umanità, in nome delle donne, dei bambini, degli anziani, e anche di tutti i soldati morti. Le cifre ormai sono impressionanti. E le devastazioni? Sono stato in Ucraina e ho visto con i miei occhi. È ora di fermarsi.

C’è la possibilità che le cancellerie prendano il sopravvento rispetto ai militari?

L’auspicio è proprio questo. Il popolo della pace, coloro che amano il dialogo e ritengono la guerra irrazionale, chiede proprio questo alle cancellerie. Quando vi muoverete? Eravamo in 150mila a Roma il 5 novembre scorso. Siamo stati totalmente inascoltati. Ma non demordiamo. Possibile che nessuno voglia ascoltare le ragioni della pace? La marcia da questo punto di vista che cosa vuole dire? Come umanità di questo tempo abbiamo bisogno di sradicare dal nostro cuore la cultura della guerra e sostituirla con quella della pace. Cultura vuol dire cura, pazienza, lavoro continuo di educazione e di formazione. La marcia si svolge ad Altamura, città del pace al pari di Matera dove abbiamo celebrato a settembre il Congresso Eucaristico nazionale. Abbiamo bisogno di pane e non di fucili. La quarta tappa della marcia sottolineerà proprio questo. Si spezzerà il pane da dare a tutti i partecipanti. Si sta pensando anche al cosiddetto forno sociale, iniziativa di condivisione. E speriamo che nasca di qui la radice di quella che può essere una visione nuova: condividere, camminare insieme per tracciare sentieri di pace.

Nella terza tappa della marcia, e anche nel convegno che prenderà il via oggi, si parlerà di obiezione di coscienza, a 50 anni dalla legge istitutiva del servizio civile. Qual è oggi il valore di questa scelta?

Chi ancora pensa che un giovane cresca bene se educato militarmente, esprime un’opinione che non posso condividere. Un giovane cresce bene se si prende cura dell’altro, non se imbraccia un fucile. In quella tappa della marcia prenderanno la parole tre obiettori di coscienza: un russo, un ucraino e una voce dalla Palestina. Quando ero parroco, ho avuto tanti giovani obiettori. Ora nella nostra diocesi abbiamo venti ragazzi in servizio civile e stanno soprattutto negli empori della carità. Questo educa. Un giovane non è perfetto, come dice un certo slogan, con il moschetto. Un giovane cresce bene se impara la cura e l’amore. Quindi dobbiamo proporre ai giovani visioni alte, non visioni di un passato che dobbiamo seppellire insieme con l’ascia di guerra. Di tutte le guerre. E non dimentichiamo, che come dice sempre il Papa, oltre alla guerra in Ucraina, ce ne sono purtroppo altre che pochi ricordano. Ma mietono vittime e distruzione lo stesso.

Mimmo Muolo, Roma

© Avvenire, venerdì 30 dicembre 2022

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