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Una strana Pasqua senza i giovani di Taizé. Frère Alois: l'Italia nel cuore

Parla il priore della comunità di Taizé riferimento per tanti ragazzi: questo tempo ci cambierà se faremo crescere le relazioni umane con vicini e distanti, credenti, non credenti o di altre religioni

In questi giorni frère Alois, il priore di Taizé doveva essere a Roma. Già fissate da tempo un’udienza con papa Francesco e una conferenza all’Angelicum, così come diversi incontri con cardinali e vescovi invitati dai frères nel loro appartamento nella capitale. Tutto necessariamente è stato annullato. Ciò che però più fa pensare è l’immagine di Taizé deserta, proprio nel periodo in cui avvicinandosi la Pasqua, giovani da tutto il mondo vi sono sempre arrivati a frotte. Quest’anno, invece, per la prima volta , lassù, sulla dolce collina della Borgogna, sede della comunità fondata da frère Rogér, le porte resteranno chiuse.

Frère Alois, una Quaresima improvvisamente diversa. Tutti d’un colpo fragili, prede della paura… Quali le prime impressioni?

Abbiamo dovuto chiudere l’accoglienza sino a Pasqua. Con tristezza. Per ora sono queste le disposizioni. Celebreremo la Settimana Santa e la festa della Risurrezione solo fra di noi, mentre abitualmente eravamo insieme a migliaia di giovani. La maggior parte dei volontari che vivono con noi aiutandoci nel servizio di accoglienza hanno dovuto rientrare nei loro Paesi. Tutto ciò costa, ma facciamo in modo che i nostri cuori non si rattristino ancor di più. Nelle avversità, vorremmo salvaguardare la speranza e, secondo la frase di frère Roger «non subire gli eventi, ma costruire in Dio anche con le situazioni più dure». Vorrei che queste restrizioni ci stimolassero a intensificare la nostra preghiera e a renderla ancor più bella.

Quanto sta accadendo potrà cambiare le nostre vite? Come?

Forse potrà cambiare qualcosa se ci adopereremo a far crescere il tesoro delle relazioni umane. Non solo con quanti ci sono vicini, ma anche quelli che sono distanti, credenti e non credenti o di altre religioni. Manteniamo i contatti – con una chiamata telefonica, un messaggio di amicizia…– con i più isolati, i più anziani, i più fragili, quelli già colpiti da altre malattie o prove.

Questo è il tempo del rispetto di tanto lutto e di tanto dolore per il quale le parole possono poco. In tante famiglie è anche tempo di paura, attenuata in chi vive da quasi due settimane di isolamento. Come si riempie di senso tutto questo? E quest’autoreclusione necessaria porterà maggior individualismo o maggior solidarietà?

Conosco la sofferenza di tanti italiani, l’angoscia di chi è stato colpito, dei malati, dei familiari di alcune vittime, immagino anche i problemi di quanti già ora sono toccati dalle conseguenze economiche. Noi li portiamo nella preghiera. L’Italia è vicinissima al mio cuore. Il nostro prossimo incontro europeo dei giovani sarà a Torino, alla fine di dicembre. A Taizé sono moltissimi gli italiani che arrivano. In questi giorni i loro visi scorrono sotto i miei occhi. Ho ricevuto una lettera da Bergamo, città messa a durissima prova. Chi mi ha scritto lancia un appello che ho trasmesso a tutti i frères. Dice: «Non sono molto capace di pregare. Cerco di vivere secondo i principi del Vangelo e di trasmetterli ai miei bambini, ma faccio fatica ad affidare qualcosa nelle mani di Dio. Forse voi potete farlo per me». Pregare per gli altri è già l’espressione di una solidarietà che ci strappa all’individualismo.

Alcuni accusano le gerarchie ecclesiastiche di aver ceduto allo Stato, accettando celebrazioni senza fedeli e anche di chiudere le chiese. Che cosa pensa? Voi come vi state comportate?

Adesso conviene non sprecare la minima energia in polemiche. Oggi molti pregano senza far rumore e forse senza manifestazioni esteriori, tanto quanto in passato. Per ciò che ci riguarda in comunità evitiamo riunioni con troppe persone. Ci siamo organizzati in piccoli gruppetti che pregano, mangiano, qualche volta anche continuano a lavorare insieme, sparsi in posti diversi. Scopriamo nuove modalità di vivere la nostra fraternità. Parecchi, rientrati da viaggi, sono in quarantena. Solo un frére probabilmente è affetto da coronavirus. Abbiamo chiuso la grande Chiesa della Riconciliazione, ma la piccola chiesa romanica del villaggio di Taizé resta aperta per la preghiera personale.

È in atto un forte ricorso ai contatti in rete. Cambierà il rapporto della Chiesa con il web?

I social possono essere male utilizzati, ma offrono indubbiamente possibilità mai conosciute. Così, per solidarietà con quanti sono confinati nelle loro case abbiamo deciso di diffondere tutti i giorni alle 20.30 in diretta su Facebook e sul sito Internet la nostra preghiera della sera celebrata nella camera dove viveva frère Roger. Preghiamo in più lingue per essere in comunione con molti altri in tanti Paesi.

E poi c’è la comunione spirituale. Specie quando è impossibile ricevere l’Eucaristia.

Siamo fiduciosi che, in circostanze eccezionali, Dio supplisce ogni nostro limite e impossibilità. A chi è impedito di ricevere il corpo e il sangue di Cristo, Dio offre, attraverso lo Spirito Santo, una qualità di comunione interiore che prima non si poteva immaginare.

Alcuni vescovi in Italia benedicono dall’alto delle Cattedrali, alcuni parroci dai campanili, altri invocano i patroni delle città, papa Francesco va a piedi in centro a Roma davanti al Crocifisso della peste di cinque secoli fa… Taizé a chi si raccomanda?

La nostra comunità è composta da fratelli di una trentina di Paesi e di ogni continente. Secondo ciascun Paese, cultura, tradizione, i credenti invocano il soccorso di Dio in modi molto diversi. Dio ascolta tutte le forme di preghiera. E nei momenti difficili, ci sono persino lontane preghiere – apprese nell’infanzia – che salgono dal profondo dentro di noi. Questo tempo ci cambierà «se faremo crescere le relazioni umane Con vicini e distanti, credenti, non credenti o di altre religioni».

Marco Roncalli

© Avvenire, mercoledì 1 aprile 2020

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