Veleni e vecchi poemetti

Nonna Virginia era nata a Giacciano con Baruchella, nel cuore della  grassa pianura. Era alta, seria, devota. Portava abiti larghi a  minuscoli fiorellini su fondo grigio, o marrone, e una gorgierina  candida intorno al collo, che cambiava ogni giorno. Qualche volta sulla  gorgierina erano ricamati fiorellini colorati: era il segno che la nonna  era di buonumore; ma se erano rossi, e succedeva molto raramente,  allora voleva dire che in lei si stavano scatenando le specialissime  mattane di famiglia. Come quando Virginia e sua sorella Elisa andarono a  funghi nel bosco sopra Susin di Sospirolo, il paesino del bellunese  dove i nonni avevano una casettina «stile châlet svizzero, ahimè», come  sospirava di nascosto mio padre, con il tetto spiovente e i listelli di  legno traforato che pendevano dall’alto. In un piacevole pomeriggio  d’agosto, le due vecchie signore con il loro cestello avevano fatto una  bella raccolta, senza andare troppo per il sottile, perché nessuna delle  due ne sapeva molto, di funghi. Arrivate a casa soddisfatte e felici,  se li cucinarono e se li mangiarono tutti, brindando col buon vino che  produceva Elisa, sorridente zitella tutta tonda che viveva a Valeggio  sul Mincio. Ma alcuni funghi erano velenosi, anche se non proprio  mortali. Per tutta la notte le due fecero su e giù per le scale della  villetta, in preda a un’irresistibile euforia allucinatoria, salutandosi  con grandi inchini quando si incontravano e con frequenti soste nel  bagno a mezza scala. Le trovarono l’indomani al pianterreno, deliranti e  piagnucolose. 
 Ma di solito la nonna era seria e basta. Era molto devota di san  Giovanni Bosco, del quale distribuiva volentieri santini; qualche volta  ed erano i più preziosi, con un minuscolissimo rigonfio dove era  contenuta, diceva, una 'reliquietta' del santo, piccola ma potente.  Aveva dodici fratelli, di cui nove viventi, ripeteva con orgoglio. Lei  era una dei primi, «tutti di pura razza veronese-mantovana, grandi e  robustissimi – diceva – tranne i due ultimi», cioè la dodicesima, che  era appunto la gaia e molto avara Elisa di Valeggio, e il tredicesimo,  Giuseppe, professore e critico d’arte, piccolissimo di statura ma  potente d’ingegno, aggiungeva, «è piccolo, astuto e birbante, riesce  sempre a rubarmi le rose». 
 La guerra delle rose era in corso fra i due ogni anno. A poca distanza  dallo châlet dei nonni, in cima a una collinetta che sovrastava il  paese, ne era stato costruito un altro, nei primi anni del Novecento.  Fratello e sorella li avevano acquistati insieme, all’inizio degli anni  Trenta. Le due costruzioni erano collegate da un cupo viale di abeti  tutti uguali, piuttosto lugubre, specie durante i frequenti temporali.  Ma noi bambini non ci badavamo: lo percorrevamo di corsa ogni  pomeriggio, con qualsiasi tempo, per arrivare a rubare un paio di  salatini e di dolcetti al tè delle cinque della moglie di zio Giuseppe,  zia Agnese dai capelli innaturalmente fiammeggianti e dall’andatura  maestosa. Di solito lui la seguiva con dignità («come un sorcetto  saltellante», diceva mio padre, maligno). 
 Succedeva spesso che la mattina presto, poco dopo l’alba, munito di un  paio di scintillanti cesoie, lo zio percorresse il vialetto e  silenziosamente si avvicinasse alla magnifica siepe di rose che nonna  Virginia curava con successo. Una grande bordura sul davanti della casa,  fiorentissima. Tutti ancora dormivano. Lo zio quatto quatto sfoderava  le forbici e tagliava i lunghi gambi di quelle in fioritura, poi se ne  andava velocissimo. Qualche volta la nonna, che stava al primo piano, lo  sorprendeva da dietro le persiane, e allora le rose venivano  sequestrate e lui amaramente rimbrottato come ladro e delinquente... poi  tutto finiva con una fetta di dolce e un caffè. 
 Perché i nove fratelli andavano molto d’accordo sulle cose di sostanza:  nelle festività, una bella Messa, buona tavola e cibo in allegria, con  tanta gente intorno. 
 Celebri erano i pranzi annuali di zia Elisa a Valeggio, tortellini e  zabaione; e quelli a Lendinara, dove c’era la tomba di famiglia del  nonno Marchiori, per la ricorrenza del due novembre, festeggiando i  morti e i vivi. 
 E poi a Castagnaro, a Giacciano, a Baruchella... E in ognuna di queste  occasioni, coi grandi pranzi e i grandi zabaioni e le schidionate di  uccelletti dello zio Arrigo, e i bambini sfrenati che poi si  addormentavano negli angoli della vasta sala da pranzo, prima o poi  sicuramente veniva intonato il celebre epitalamio che da decenni  rallegrava quei semplici cuori. 
 Era stato scritto da un lontano parente, digiuno di versificazione e di  buon italiano, ma con tanta passione e buona volontà, in occasione delle  nozze della figlia Ottavia, che si era innamorata di un tenente di  cavalleria e andava a stare in terre lontane. Il padre aveva  acconsentito volentieri al matrimonio, trattandosi di un uomo assennato e  benestante; ma voleva dare all’amatissima unica figlia un ricordo  speciale. E dunque il suo poema iniziava così (e in ogni incontro del  clan veniva recitato da tutti i commensali che lo conoscevano a memoria,  un paio di versi per uno, fra scroscianti risate e singulti): «Tu l’hai  proprio deciso / tu vuoi partir da io / oh cara la mia Ottavia / è  fiero il dolor mio». 
 A questa partenza in sordina seguivano versi folgoranti di pathos: «E  quando penso che io / starò lontan da te / mi vien proprio da piangere /  che te lo dico me». Seguiva una similitudine aulica, su cui l’autore  doveva aver molto riflettuto: «Come la vacca / che corre al fieno / tale  la sposa / né più né meno»; e poi, in un crescendo strepitoso, le  strofe sublimi, culmine di ogni festa: «Tu dunque, barbara, tu vuoi  lasciare / questo modesto mio lupanare? // Ti chiamo barbara / ma non  sei tale! / Perdona dunque s’io parlo male, / io parlo un poco a rococò,  / perché lo studio / nessun mel dò». A questo punto tutti intonavano  insieme l’apoteosi finale: «Perdona dunque, Ottavia mia, / quello che ho  detto, Mitologia!», parola difficile a cui l’autore si era sentito in  dovere di apporre una nota di spiegazione per il pubblico incolto, che  zii, zie, nipoti e parenti vari ripetevano in coro: «Mitologia è quella  cosa che non sono vere». E infine concludevano con la perfida chiosa che  un certo zio Domenico, presente al matrimonio, aveva aggiunto in un  brindisi finale agli sposi: «Unite dunque le vostre vite / fando  un’unica congiuntivite!». Buon tempo antico. Si abbracciavano  sghignazzando, ridendo e piangendo, con quella gioia totale, forse un  po’ animalesca ma tonificante, che viene dal sentirsi insieme in  amicizia e dal cibo condiviso in allegria: cioè dall’esorcismo (per un  momento prezioso) compiuto sul male e sulla morte.
            