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Vino nuovo in otri nuovi

Mons. Domenico PompiliSottosegretario e portavoce della CEI24 aprile 2010

 

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1.      Il nuovo del Vangelo e il vecchio della comunicazione
 
Paul Ricoeur scriveva che “solo interpretando i simboli possiamo credere”, dato che il simbolo è una “immagine-verbo” che fa di noi ciò che esprime (Il simbolo dà a pensare, 2002:13).
Il frammento di Luca (5,33-39), appena risuonato in quest’Aula, invita a lasciarci trasformare da una immagine che è quasi una parabola concentrata, un effetto spot, tagliente ed ironico, efficace come se pronunciato oggi per la prima volta. Possiamo immaginare che gli interlocutori di Gesù abbiano sorriso o siano stati spiazzati dalle sue parole. Cosa avverrebbe infatti in quella cantina di otri vecchi, con i cocci e l’intera annata perduta che schiuma per terra? Dietro questa immagine ad effetto c’è una convinzione che sfugge a colui che non vuole assaggiare nessuna novità e - dal momento che  ‘non vi è nulla di nuovo sotto il sole” - ritiene la sua bottiglia l’unico e miglior elisir che si possa mai bere, in barba al frizzantino che traspira negli otri nuovi, giù in cantina. Ciò che gli sfugge è che per poter cogliere il nuovo bisogna far piazza pulita del vecchio.
Anche nella comunicazione del Vangelo oggi c’è qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio. Il nuovo è, naturalmente, la buona notizia, spumeggiante e dirompente come un vino novello; il vecchio è paradossalmente la comunicazione, che è soggetta a innovazioni rapide e presto datate, a mutamenti che cominciamo a comprendere solo quando sono passati; come scriveva McLuhan, noi guardiamo sempre i media nello specchietto retrovisore: “Di fronte a una situazione assolutamente nuova, tendiamo sempre ad attaccarci agli oggetti, all’aroma del passato più prossimo. Guardiamo il presente in uno specchietto retrovisore. Arretriamo nel futuro” (Il medium è il massaggio, 1981:75).
 Il digitale è solo il più recente, mutevole scenario che ci interpella, il futuro in cui rischiamo di arretrare. A chi come noi è chiamato ad assaggiare e far gustare la novità dentro questa condizione in perenne divenire è richiesta a prima vista una impossibile missione. Che però non può essere elusa. Come uscirne?
 
2.      Gli otri nuovi: l’intenzionalità, l’interesse, l’impegno, la responsabilità
 
         Non esiste una risposta a buon mercato, beninteso. Ci sono però una serie di condizioni preliminari, ineludibili per ciascuno di noi, senza le quali è impossibile attivare qualsiasi comunicazione umana, ivi compresa quella del Vangelo.
La prima è certamente l’intenzionalità, cioè la consapevolezza di ciò che ci sta a cuore e l’impegno a condividerlo, senza dissimulare la propria identità. Non si può comunicare senza volerlo, lasciando all’eventualità del caso l’emergere delle nostre convinzioni.
Poi è fondamentale la capacità di avvicinare l’altro, cioè il nostro interlocutore. Se manca la disponibilità ad ascoltare chi ci sta di fronte, cioè realmente la voglia di entrare nel suo mondo e di ospitarlo nel nostro, qualsiasi comunicazione è depotenziata, perché manca il terreno per allestire le condizioni dell’incontro, al di là di differenze che restano altrimenti insormontabili.
Ma per intendersi bisogna fare lo sforzo di imparare i linguaggi e le nuove forme di comunicazione, cioè entrare dentro il mondo per noi cifrato che altri abitano con naturalezza (pensiamo a quel che scrivono i nostri adolescenti su Facebook!) e cercare di acquisire le capacità per entrare in sintonia con loro, per comprendere il mondo delle loro immagini e percezioni, raggiungendoli sul loro terreno.
Accanto a queste condizioni di partenza c’è su tutte una qualità che occorre   saper realizzare, ed è la credibilità che ciascun testimone, anche in versione digitale, deve poter assicurare per garantire la tenuta del proprio agire comunicativo. Essere credibili significa saper rispondere di sé, anzitutto. La chiesa non fa testimonianza nei media (solo) perché ne possiede e gestisce alcuni. Per esserci occorre prima essere, giacché la responsabilità è una questione di ontologia prima che di etica della comunicazione. Aver cura di sé significa per ciascun animatore della cultura e della comunicazione, così come per qualsiasi professionista dei media, porre in prima istanza l’autenticità e l’affidabilità della propria vita. 
Ma responsabilità è anche rispondere del contenuto della comunicazione non solo ovviamente nel senso della sua integralità [integrità? Verità?], ma anche in quello della sua comprensibilità, della sua capacità di parlare agli uomini e alle donne di oggi. La sfida è di ampia portata. Essa ci chiama ad un linguaggio non meno razionale, ma certo meno intellettuale, meno argomentativo ed astratto, in favore di un linguaggio più simbolico e poetico che lasci emergere il legame profondo tra la fede e la vita vissuta; lo stesso linguaggio delle parabole di Gesù insomma. Un linguaggio capace, cioè, di risvegliare i sensi, di riaccendere le domande sulla vita, di mostrare un Dio dal volto umano, di proporre la fede in modo non esterno alle battaglie e alle speranze degli uomini.
Quindi responsabilità significa rispondere della relazione che la comunicazione instaura. E’ sorprendente che nel marketing si usi target, cioè bersaglio, per designare il destinatario. Ben altro è evidentemente quello che si richiede dalla nostra comunicazione, che deve essere giocata per un verso sull’ascolto e per altro verso sulla trasparenza. Ma essa non può prescindere anche da un radicamento sul territorio, che è la parete mancante della Rete, mentre è invece uno dei motivi di forza della Chiesa. E’ a partire da questo radicamento, da questa concretezza relazionale e da questo intreccio di vite e di storie che si può pensare a un’azione comunicativa capace di costruire unità, anziché a singoli, sporadici interventi.
Infine responsabilità è rispondere degli effetti dell’agire comunicativo, cioè interrogarsi su quello che accade e su quello che produce la nostra comunicazione. Il che significa non solo pianificare, ma anche verificare; non soltanto progettare a tavolino restyling accattivanti, ma anche monitorare poi i risultati delle nostre innovazioni. La mancanza di questa capacità di analisi conduce spesso a ripetere gli errori del passato e impedisce qualsiasi reale innovazione, giocando solo sul susseguirsi di superficiali novità.
 
3.      Un impegno per gli anni avvenire: la credibilità di ciascuno
 
         Negli anni avvenire siamo chiamati a stare dentro il mondo dei media, sempre più pervasivo ed istantaneo come internet, alla maniera di credenti capaci di rendere ragione, cioè responsabili, in concreto credibili. Allora si realizza il detto del Maestro “vino nuovo in otri nuovi” che è un invito a ritrovare l’eccedenza del Vangelo che sorpassa ogni nostra aspettativa dentro “otri nuovi”, cioè rinnovati da questa credibilità che non fa sconti a nessuno e tutti provoca a lasciarsi plasmare da quello che si intende comunicare. Come efficacemente detto da Gregorio Magno:”Parlerò affinchè la spada della Parola di Dio anche per mezzo di me arrivi a trafiggere il cuore del prossimo. Parlerò affinchè la parola di Dio risuoni contro di me per mezzo di me (Omelie su Ezechiele, I,11, 5).
La durezza di queste parole, che ci richiamano a una responsabilità cui non vogliamo sottrarci, non ci impedisce di esplorare il nuovo ambiente digitale con la leggerezza, la curiosità, l’abilità e la passione del surfer. “La sua percezione – scriveva McLuhan - offre un possibile stratagemma per comprendere la nostra situazione, il nostro gorgo configurato elettricamente” (1981:150). Il “gorgo” della velocità del cambiamento non ci inghiottirà, se sapremo interpretare la sua azione, guardando con gli occhi e non in uno specchio: imparando, come il surfer, a stare sulla superficie dell’onda perché conosciamo la profondità delle correnti…

 

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