Vivere il Natale e non celebrarlo come abitudine
“Nascesse pure Gesù mille volte a Betlemme, a nulla mi vale se non nasce in me”! Questa frase del mistico Angelo Silesio ci interpella oggi più che mai, in una stagione in cui sembra perfino che quanto celebriamo a Natale abbia ben poco a che fare con il mistero dell’Incarnazione. Eppure, per i cristiani il Natale significa proprio questo: la venuta di Dio in mezzo a noi in un povero, debole, fragile bambino di Betlemme. È il grande mistero della fede cristiana: Dio fatto uomo, Dio in mezzo a noi! Ma è anche un grande annuncio: Dio ci ha amati a tal punto da diventare ciò che noi siamo perché noi diventiamo ciò che Lui è.
Il cristiano, cosciente della sua qualità di figlio di Dio, intensifica nel giorno di Natale la preghiera e la festa. Ma questo rinnovato fervore religioso resta vano se il cristiano non giunge a vivere e a pregare il Natale e se si limita a celebrarlo in forza dell’abitudine o come una verità dogmatica che non lo coinvolge personalmente.
Celebrare il Natale non significa rievocare un fatto ormai relegato in un passato mitico, né cercare di capirlo intellettualmente, ma arrivare a dire: oggi si compie il Natale, per noi, qui, ora,
fino a ripetere nella fede la parola del Vangelo: “Oggi è nato per noi un Salvatore, il Cristo Signore” (cf. Lc 2,11). Non basta meditare sull’evento del Natale, occorre “vederlo”, esserne coinvolti con tutto il proprio essere: il profeta Sofonia si rivolge al popolo dicendogli: “Rallegrati, fa’ festa, gioisci con tutto il cuore … perché il Signore tuo Dio è in mezzo a te e danza, esulta per te, ti circuisce” (cf. Sof 3,14). Questo è il Natale: Dio che che danza di gioia e circuisce l’umanità come un innamorato fa con una ragazza. Celebrare il Natale significa accettare il dono del Dio che si consegna all’umanità, a noi, e rispondere con gioia, danzando davanti alla gioia di Dio che nel farsi uomo raggiunge l’umanità amata come una sposa. Natale è l’evento in cui Dio, nella nascita di un bambino, ci consegna la sua parola fatta carne e, nell’incarnazione, manifesta se stesso a noi, si fa vedere, si comunica tutto a ogni essere umano e ne assume tutta l’umanità.
Certamente questa notificazione è fatta ai cristiani che nell’obbedienza della fede sanno accettare la venuta nel mondo del Dio che si fa carne, che si fa uomo.
Questo però non è un privilegio, ma una compromissione radicale con Dio e anche con l’umanità. Infatti il nostro Natale si situa tra la prima venuta annunciata ai soli pastori di Betlemme, ai poveri che attendevano la salvezza portata dal Messia, e la seconda venuta che coinvolgerà tutti gli esseri umani, di ogni tempo e di ogni luogo, tutto il creato, l’universalità degli esseri. Nel Natale Dio si è consegnato per coinvolgere l’umanità intera nel disegno di salvezza universale e questo compromette tutti coloro a cui l’evento è stato notificato nella fede.
Ogni comunità cristiana, dunque, nel celebrare il Natale deve assolutamente diventare eloquente anche per quelli che cristiani non si dicono, o che da tempo non sono praticanti…
Si tratta di vivere le feste natalizie in modo che la gioia cristiana e il messaggio di riconciliazione e di pace che l’Emmanuele ha portato raggiunga tutti e venga annunciata la buona notizia della “pace in terra agli uomini che il Signore ama”.
Non si tratta di una comunicazione fatta semplicemente con le parole, si tratta di un “vissuto” comunitario che raggiunge i fratelli e le sorelle in umanità.
In una stagione in cui doni universali come la pace e l’unità, la convivenza fiduciosa e la solidarietà sembrano smarriti nell’aggrovigliarsi di paure, il Natale può e deve essere il luogo, il momento privilegiato per riaffermare la buona notizia della fraternità su questa terra, dono di Dio per il bene di tutti, tesoro che a lui solo appartiene e che noi umani possiamo solo condividere nella giustizia, nella pace, nella benevolenza reciproca.
Enzo Bianchi
© www.agensir.it, lunedì 24 dicembre 2018