A 50 anni dall’Inter Mirifica, quel che resta
1. Inter Mirifica: la storia degli effetti di una esitazione
“Urgente! Venerabili Padri, riletto ancora una volta prima della votazione definitiva, lo schema ‘De mediis communicationis socialis’ a molti Padri il testo di esso sembra indegno di un decreto conciliare. Si pregano i Padri di riflettere e votare non placet. Infatti lo schema delude l’attesa dei cristiani, specialmente dei competenti in materia. Se venisse promulgato come decreto, ne scapiterebbe l’onore del Concilio”[1].
Il volantinaggio improvvisato sulle gradinate di S. Pietro il 25 novembre del 1963, non impedì che qualche giorno dopo, il 4 dicembre, si arrivasse all’approvazione: 1960 placet e 164 non placet. Un risultato irrituale, viste le maggioranze senza ombre che si sarebbero poi prodotte per altri documenti conciliari. E, tuttavia, l’opposizione a quel che originariamente doveva essere addirittura una Costituzione e poi venne derubricata a semplice Decreto, sortì l’effetto di avviare un processo che giunge fino ai nostri giorni. Senza l’IM non saremmo qui oggi, probabilmente. Infatti, nel tentativo di evitare la bocciatura il testo venne drasticamente ridimensionato, ma senza modifiche sostanziali, se R. Laurentin si lascerà scappare :”Il testo ridotto aveva conservato gli stessi difetti del primo: banale, moralizzante, gretto, poco aperto ai laici…”[2]. Per poi aggiungere: ”Abbiamo assistito a una delle tentazioni che minacciano qualsiasi assemblea, e che succedono anche nei concili ecumenici: un testo senza profondità, che elimina i punti principali della discussione e d’opposizione, rinunciando a prendere posizione sui problemi, che non fa nascere nessuna opposizione, passa senza dolore, però senza profitto”. E tuttavia la scelta di andare comunque avanti fu operata perché - come ammetterà p. Baragli che ne fu l’estensore – “si preferì sacrificare qualcosa più del necessario, piuttosto che correre il rischio di vedersi tornare lo Schema respinto dall’Aula, e forse definitivamente”[3].
L’esitazione del Vaticano II - 50 anni dopo - è solo un ricordo di fronte a quello che l’IM ha prodotto nella Chiesa, con la sua storia degli effetti. Di certo, il mondo della comunicazione sociale che era nato fuori dai confini ecclesiali e che, a lungo, era stato guardato con sospetto riceveva nella forma più alta e collegiale un riconoscimento che eliminava tutto ciò che potesse ricordare una qualsiasi ‘scomunica’. Si introduceva, peraltro, con una splendida affermazione circa “le meravigliose invenzioni della tecnica… che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare” (n. 1), il che lasciava trapelare lo sguardo originale con cui guardare a questa novità dei tempi moderni. La scelta dell’IM non è stata più abbandonata e di lì sono andate consolidandosi alcune linee di sviluppo che oggi si fanno più chiare.
Ne enumero almeno tre.
La prima: la scelta di un approccio non specialistico, che fa degli strumenti della comunicazione sociale non un fatto tecnico, ma una questione antropologica, dove la variabile umana appare decisiva.
La seconda: la percezione di un cambio d’epoca e non solo di un’epoca di cambiamenti, direbbe Papa Francesco. L’Istruzione pastorale del 1971 (Communio et Progressio), che verrà redatta per dare compimento all’incompiutezza dell’IM, pone un interrogativo che presagisce la rivoluzione digitale che sta per appalesarsi: “A questo punto si pone un problema molto difficile, se siamo cioè alla soglia di un’era totalmente nuova della comunicazione sociale oppure no; se, in altre parole, nelle comunicazioni si sta operando non soltanto un progresso di quantità, ma anche di qualità” (n. 181).
La terza: la sfida di un linguaggio che dovrebbe giungere a tutti, ma con la capacità di penetrare dentro la coscienza di ciascuno. Non alla massa impersonale degli individui anonimi ed equivalenti, ma ad ogni singolo membro della famiglia umana, facendo appello proprio alla sua irripetibile unicità. Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi (8.12.1975) lo dice con chiarezza :”Nel nostro secolo, contrassegnato dai mass media o strumenti di comunicazione sociale, il primo annuncio, la catechesi o l’approfondimento ulteriore della fede, non possono fare a meno di questi mezzi come abbiamo già sottolineato. Posti al servizio del Vangelo, essi sono capaci di estendere quasi all’infinito il campo di ascolto della Parola di Dio, e fanno giungere la Buona Novella a milioni di persone. La Chiesa di sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati; servendosi di essi la Chiesa “predica sui tetti” il messaggio di cui è depositaria; in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi riesce a parlare alle moltitudini. Tuttavia l’uso degli strumenti di comunicazione sociale per l’evangelizzazione presenta una sfida: il messaggio evangelico dovrebbe, per il loro tramite, giungere a folle di uomini, ma con la capacità di penetrare nella coscienza di ciascuno, di depositarsi nel cuore di ciascuno, come se questi fosse l’unico, con tutto ciò che egli ha di più singolare e personale, e di ottenere a proprio favore un’adesione, un impegno del tutto personale” (n. 45).
IM, CP ed EN sono il triangolo concettuale da ritrovare se vogliamo riannodare i fili di un rapporto, quello tra teologia e comunicazione, che a ogni epoca si presenta in modo nuovo e che ai nostri giorni solleva, tra le tante, una questione: l’opinione pubblica nella Chiesa.
2. Teologia e comunicazione: il nodo scoperto dell’opinione pubblica
Chi più di recente ha contribuito a chiarire il rapporto tra teologia e comunicazione è il gesuita, W. J. Ong (1912- 2003)[4] che, a partire dallo studio della retorica medievale e rinascimentale, ha mostrato come nella differenza tra oralità e scrittura si nasconda una partita decisiva. La diversa modalità di linguaggio - che nel caso dell’oralità è intuitiva, empirica e integrale, mentre in quella scritta si presenta deduttiva, razionale e specialistica - decide anche del pensiero, ivi compreso del pensiero intorno alla fede. Non si può negare che la stessa teologia abbia risentito della parola scritta, che l’ha avviata inavvertitamente verso un atteggiamento più raziocinante e meno esistenziale, più asettico e meno empatico. Ora, se è vero come scrive il beato Card. Newman che ‘il nemico della fede non è la ragione, ma piuttosto l’immaginazione’, bisognerà interrogarsi sul rapporto tra teologia e comunicazione, per evitare che la parola intorno alla fede rischi la riduzione a semplice informazione. Comunicare, infatti, non è semplicemente trasferire delle nozioni, una sorta di trasporto di cose già pronte da apprendere, ma sviluppa un processo che mobilita tutte le energie della persona e la costringe a prendere posizione. La comunicazione trascende la gestione dell’informazione e collega l’intimo di una persona con quello di un’altra. Quando la Chiesa si limita ad informare restringe il suo campo d’azione e finisce per essere confusa come una delle tante agenzie presenti e vocianti nell’agorà pubblica, perdendo quella differenza che la preserva dall’assuefazione alla chiacchiera.
La novità oggi è il fatto di trovarci - con l’avvento dei mass media prima e dei personal media poi - in una stagione che già Ong aveva definito di ‘oralità secondaria’. Per un verso siamo tornati a scrivere su smartphone e tablet, per un altro verso questa comunicazione è quasi parlata e segnata da una ricerca di interlocuzione che cerca relazioni prima che contenuti, e che utilizza forme colloquiali, gergali, contratte molto più vicine alla lingua parlata che a quella scritta. McLuhan definiva questa oralità secondaria come 'visibile speech': parola parlata visibile più che parola scritta (corrispondente alla svolta social del web).
Come sottolinea anche l’ultimo Rapporto Censis-Ucsi, intitolato L’evoluzione digitale della specie: “Le tecnologie digitali si stanno fondendo con la nostra dimensione corporea e mentale non solo perché i device che possediamo diventano sempre più piccoli e immateriali, per cui nella digital life ci accompagnano in ogni momento della nostra vita quotidiana. I media digitali si fondono con noi perché di fatto non sono più ‘media’, cioè qualcosa che sta ‘in mezzo’ tra una cosa e l’altra. Gli strumenti digitali ‘sono’ la cosa che si forma dalla fusione di noi stessi con i dispositivi telematici. Per questo motivo, si può sostenere che è in corso una vera e propria evoluzione della specie, un salto qualitativo delle nostre attitudini e capacità”[5]. Non basta registrare la novità sul piano quantitativo, con tutte le curiosità sulla dieta mediatica che si trasforma e sulla priorità dell’uno o l’altro strumento. Qui occorre mettere a tema lo scarto qualitativo che la novità tecnica comporta: la rinnovata centralità della relazione, che precede ogni passaggio di contenuti e ne è condizione imprescindibile. E, dunque, riconoscere che oggi il linguaggio ha da essere più discorsivo e relazionale anche quando è in gioco la trasmissione della fede.
In questa stagione segnata dall’evoluzione digitale della specie e da un Magistero che rilancia la priorità della relazione sui contenuti, c’è spazio e motivazione per ripensare il lavoro dell’ufficio per le comunicazioni sociali? Soprattutto in vista di un aspetto che non può essere più eluso nell'era dei social media e cioè la costruzione di una opinione pubblica che faccia crescere il protagonismo, in primo luogo dei laici, e si allontani da certa modalità informativa che, con eccessiva disinvoltura assume i toni del gossip e della polemica, o l'intransigenza rigida dell'ideologia?
Mi ha colpito, di recente, quanto detto da mons. Wells[6] e riportato su Vatican Insider, circa il fatto che con Papa Francesco la comunicazione è diretta e sembra saltare la mediazione degli esperti per giungere ‘senza filtri’ alla gente. Sembrerebbe la fine della lavoro giornalistico e invece è forse la spia di un modo nuovo di lavorare, ispirato ad un modello più relazionale.
Il paradigma relazionale è incentrato sulla dignità della persona, dignità che la rende soggetto del diritto all’informazione e alla verità. Tale modello parte da una concezione del giornalismo inteso come servizio di pubblico interesse, finalizzato a stimolare l’agire libero dei cittadini. In questa prospettiva, l’attività di comunicazione delle istituzioni, Chiesa compresa, è utile a fornire criteri di interpretazione e orientamento, per favorire le scelte delle persone. Chi invece ha una concezione del giornalismo come potere è facile che concepisca le media relations come strumento per diffondere messaggi che promuovono interessi particolari, indipendentemente dal loro valore informativo. Questo atteggiamento contraddistingue i modelli che potremmo definire di tipo unidirezionale e utilitaristico.
Il modello relazionale (è anche bidirezionale, dialogico o personalista) dà priorità alla relazione rispetto al risultato.
In questa impostazione non interessa colpire i media, ma capire i giornalisti ed essere capiti dai giornalisti. Si tratta di un modello equilibrato il cui principale obiettivo è quello di informare rigorosamente piuttosto che apparire. Ciò che veramente interessa è che ogni apparizione sui media serva ad aumentare la comprensione reciproca. Non c’è nel modello bidirezionale l’ansia di comparire ad ogni costo: ogni intervento è soppesato per il suo valore e la sua efficacia nel contesto di una relazione a lungo termine[7].
3. Alcuni atteggiamenti da coltivare
Il primato della parola scritta, dell'as trazione razionale, ma anche di una prassi organizzata secondo una logica efficientista sono alcune delle derive che la comunicazione della chiesa ha subito negli anni, lasciandosi condizionare dai modelli culturali più che essendo capace di condizionarli a propria volta, e che oggi vanno corrette. Questo non significa che ora si debba oscillare completamente dalla parte del pathos, come peraltro molta della cultura contemporanea sembra fare; piuttosto, è un invito a recuperare la ricchezza della nostra tradizione comunicativa, promuovendo uno stile capace di parlare al presente e nello stesso tempo di esprimere un'identità non allineata. Per questo è importante tratteggiare alcune direzioni di marcia e trarre spunti dalla concretezza di esempi virtuosi.
Circa la direzioni, mi limito a suggerirne tre che aiutano a ridefinire il nostro lavoro quotidiano.
* Predominio del pensare sull’azione
Benché il rapporto tra teoria e prassi, riflessione e azione, sia e debba continuare a essere circolare, quello che rischia di venire mortificato oggi è il pensiero, schiacciato sotto l'urgenza delle tante cose da fare o sacrificato a una chiarezza espositiva con funzione pragmatica, identitaria, che però rischia di semplificare eccessivamente, di misconoscere la complessità e dunque la ricchezza del reale, di coniare slogan facili da memorizzare e ripetere, ma poco utili per capire veramente cosa sta accadendo, e soprattutto per porsi in un dialogo costruttivo col mondo. Lo sforzo di capire, di coltivare competenze che ci aiutino in questo compito, di confrontarsi con le prospettive, anche diverse, di chi ha a cuore l'umano è irrinunciabile, pena un riduzionismo del fare e del dire. La contemplazione, la preghiera, le qualità 'inoperose', che non producono effetti immediati e non sono grandezze di scambio vanno oggi, di nuovo, coltivate, così come lo sforzo di un pensiero che non si accontenta di immagini preconfezionate.
In concreto, un ufficio per le comunicazioni sociali, a livello nazionale, regionale e diocesano, non può saltare le fasi di analisi (studio sul dove siamo), programmazione (determinazione sul dove vogliamo arrivare), realizzazione (cioè il camminare, il comunicare) e valutazione (il punto finale a cui siamo arrivati). L’analisi, la programmazione e la valutazione sono attività intellettuali di riflessione, di immaginazione, di creatività. La realizzazione altro non è che l’applicazione di un pensiero. Talora siamo mangiati da questioni pratiche, perennemente urgenti e manca il tempo adeguato a quella riflessione e a quello studio che rafforzano l’azione perché quanto più si conosce la realtà, tanto più si riesce a comunicare. Favorire il tempo della stasi significa concedersi uno spazio di comprensione che preserva l’istituzione dall’atteggiamento superficiale di chi non indaga, non coglie più l’insieme, ma rincorre i particolari. Favorire il pensiero vuol dire dedicare tempo alla preparazione degli strumenti tipici di questo settore professionale (sito internet, comunicati stampa, conferenze stampa, dichiarazioni) gestendoli adeguatamente per dare priorità alla precisione dei messaggi e alle loro possibili conseguenze. Si tratta, quindi, di anteporre il pensiero alle azioni in tutte le fasi del lavoro.
* Priorità delle relazioni sul risultato
Non è dalle belle parole, dalla precisione dei concetti, dall'abilità nell'identificare frasi-bandiera che dipenderà la nostra capacità di comunicare la fede, ma dallo stile, dalla testimonianza, dalla capacità di accoglienza reciproca e di riduzione della distanza coi lontani. È importante saper creare un contesto in cui sia possibile insieme percepire un consenso, anche affettivo, non soffocante e attingere l'autorizzazione a spendere quello che si ė, per farsi carico di responsabilità.
Il modello relazionale, inoltre, è alla costante ricerca del feedback. Senza trascurare la diffusione informativa (gli output), si presta particolare attenzione alle richieste dei media, rispondendo con professionalità. Si cerca il progresso della propria istituzione desiderando nel frattempo anche quello dei media: non si tratta solo di far passare il proprio messaggio ma di capire cosa interessa sapere agli altri. L’ufficio, perciò, tenta di diventare una fonte informativa attendibile sul settore di attività e non soltanto sulle problematiche dell’istituzione. Andare incontro alla domanda, perciò non è contrario a un atteggiamento informativo positivo e propositivo ma è perfettamente compatibile con la creatività e con lo spirito d’iniziativa volto a sfruttare al massimo tutte le opportunità di trasmettere le informazioni che stanno a cuore all’organizzazione. Impostare l’ufficio in maniera relazionale richiede, insomma, un costante ascolto, sapendo cogliere i segni che arrivano dall’esterno. In questo modo l’ufficio riesce a rispondere adeguatamente e trasforma il feedback in dialogo.
Secondo un modello unidirezionale, invece, si dà priorità alle offerte dell’istituzione. Si fa una programmazione degli output senza soffermarsi troppo sull’analisi delle necessità dei destinatari. L’auto-referenzialità di questa impostazione fa sì che l’ufficio offra servizi limitati, circoscritti ai propri interessi, alle proprie campagne di comunicazione.
* Attenzione ad un lavoro strutturato a lunga scadenza
Se la comunicazione non ė trasmissione ma condivisione, e se ė ascolto prima che enunciazione, occorre rivedere i ritmi e gli orizzonti temporali della nostra azione comunicativa. Da una parte è importante la quotidianità, l'accompagnamento, il vivere a fianco per cogliere le questioni che assillano le persone nelle loro esistenze concrete, esprimendo quella vicinanza che, se non risolve magicamente i problemi, aiuta a sostenerne il peso condividendolo. Dall'altra parte è importante rinunciare alla pretesa, sbagliata, di frutti immediati, di effetti subito visibili e rassicuranti. Seminare, coltivare, attendere, avere fiducia mentre insieme ci si mobilita su progetti condivisi, accettando il fatto che magari altri ne vedranno i frutti, ma che vale comunque la pena spendere energie, insieme, per qualcosa che abbia valore. Con l'umiltà, anche, di correggere il tiro se i rimandi del contesto ci suggeriscono di farlo.
Non importa tanto il risultato di ciascuna azione quanto la reciproca conoscenza che si stabilisce con i giornalisti. Perciò, l’ufficio adotta un’impostazione generale di servizio (prestazione gratuita) piuttosto che di unità produttiva. Di conseguenza, adopera criteri di valutazione qualitativi: la rilevanza dei contenuti diffusi e la loro adesione alla realtà, il rapporto che si stabilisce e la fiducia che si genera. Un ufficio di tipo funzionalistico richiama invece risultati immediati, nei quotidiani del giorno successivo, che giustifichino la propria esistenza. Il successo è misurato con criteri prevalentemente quantitativi: numero di interventi emessi in radio o televisione, centimetri di notizie nei quotidiani, quote di mercato raggiunte, aumento delle vendite, incremento di consensi, percentuale di crescita della popolarità, ecc.
In conclusione, il paradigma relazionale ha un carattere dialogico e di servizio. Non è importante tanto quello che si ottiene dai media (spazio televisivo, articoli pubblicati, commenti nei blog) quanto ciò che si è offerto: se ha incontrato l’interesse e i bisogni dei media e del pubblico. Non è importante tanto quello che l’ufficio vuole dal giornale quanto quello che il giornale vuole dall'ufficio. Adottando questo metodo, in un certo tempo l’istituzione entra a far parte delle fonti informative abituali dei media, con tutti i vantaggi che questo comporta.
Una conferma di quanto detto si ha nella persona di Papa Francesco, il cui segreto sta non già nell’assunzione di strategie comunicative particolari, ma nella eloquenza della sua testimonianza personale che è una risorsa ormai spendibile anche in termini di Auditel.
4. La lezione di Papa Francesco: comunicare in prima persona
Secondo un noto aforisma: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito (Antoine Marie Roger de Saint-Exupery)”. Non vi è dubbio che Papa Francesco stia risvegliando il desiderio di Dio con gesti e parole che annullano la distanza e ristabiliscono un rapporto che si era interrotto. In fondo, guardando a lui ancor prima che a quello che dice, si può intuire la strada da percorrere. Nessun sapere infatti, passa fuori dalla relazione, in particolare quando è in gioco la fede[8].
Ecco che allora proprio il Papa venuto dall'altra parte del mondo è oggi il più capace di intessere un rapporto di familiarità, di consuetudine, di fiducia, dentro il quale la trasmissione della fede diventa non solo possibile, ma quasi 'naturale'.
La grande lezione di comunicazione che Francesco ci va impartendo parte dal presupposto ignaziano che “Dio è in tutte le cose”, e quindi ovunque va cercato e valorizzato. Come gli antropologi da sempre riconoscono, tutto parla: anche le 'dimensioni nascoste' della comunicazione (come le chiamava l'antropologo Edward T. Hall), ovvero lo spazio e il tempo, sono estremamente eloquenti e, soprattutto, in grado di favorire (o ostacolare) la relazione.
Prendiamo lo spazio: Papa Francesco, che non si lascia intimorire dalle grandi distanze, ci ha consegnato un compito fondamentale rispetto allo spazio: uscire, andare verso le periferie, verso chi è nella sofferenza, verso i lontani; e avvicinare, ridurre le distanze, abbracciare, assecondare 'la rivoluzione della tenerezza provocata dall'incarnazione del Verbo' (dal Discorso ai vescovi brasiliani). Così la sua lavanda dei piedi al carcere minorile di Casal del Marmo, la prima uscita ufficiale a Lampedusa celebrando su un altare costruito coi relitti dei barconi, la visita al centro Astalli di Roma e tanti altri spostamenti significativi ci invitano a rompere le barriere invisibili della marginalità e ritessere le relazioni tra i luoghi, e soprattutto tra le persone, grazie all'andare verso, che diventa una vera 'enunciazione spaziale' di prossimità.
Ma anche la dimensione della distanza interpersonale e del contatto hanno ridisegnato lo stile comunicativo della Chiesa in una direzione più accogliente, affettuosa, materna. Quel 'non abbiate paura della tenerezza' non ha più smesso di risuonare, dal momento in cui è stato pronunciato.
L'essere-con si manifesta in tanti modi: dalle carezze e gli abbracci a malati, bambini, famiglie, fino all'autoscatto con i giovani in piazza San Pietro (un bel modo di dire, senza parole, 'sono dalla vostra parte') e alle tante e ormai proverbiali telefonate, per superare col calore della voce il freddo della distanza e delle tante situazioni difficili.
Ma anche il tempo comunica: ogni città, ogni gruppo, ha la sua lingua, i suoi riti, i suoi ritmi (dal discorso ai vescovi brasiliani). E il rischio della frammentazione è forte. Con le sue catechesi quotidiana a Santa Marta e l'Angelus domenicale, ma anche con la sua veglia di preghiera per la Siria e i tanti segni di accompagnamento degli accadimenti sulla scena globale, Papa Francesco ci restituisce un ritmo comune che accompagna, scandisce e risacralizza il tempo ordinario così come l'evento straordinario, sostenendoci e offrendo un orientamento per attraversare questo presente complesso: non come individui ma come comunità, come chiesa.
Oltre a questa attenzione alle dimensioni della comunicazione (lo spazio, il tempo, il corpo), che già sono parte del messaggio che si vuole trasmettere, si possono trarre dallo stile comunicativo di Papa Francesco ancora almeno tre indicazioni per evangelizzare nella comunione:
- comunicare è condividere: nessuno deve essere ricettore passivo, carta assorbente, semplice target di un messaggio. Per comprendere bisogna partecipare, e partecipando si fa comunità attorno a un centro vivo, che è la buona notizia. Colpisce come da subito, chiedendo la benedizione del popolo, Papa Francesco abbia coinvolto attivamente le persone che ha davanti, o alle quali si rivolge dai media, sollecitandole, interpellandole, chiedendo loro una preghiera, assegnando un compito da svolgere subito. La fede non ha bisogno di spettatori, ma di protagonisti, che possano diventare testimoni.
- la comunicazione è dialogica e parte dall'ascolto e dal prendere sul serio l'interlocutore, anche quando esprime posizioni molto diverse. Andandogli incontro sul suo terreno e cercando di valorizzare ciò che c'è in comune piuttosto che ciò che divide (atteggiamento molto diffuso perché funzionale alla 'chiarezza identitaria').
- la comunicazione deve attraversare tutti gli ambienti: farsi prossimo implica saper valorizzare anche la dimensione digitale, che non esclude ma anzi potenzia l'incontro.
Anche un tweet può avvicinare e invitare alla preghiera, come dimostra l'esempio dell'hashtag #prayforpeace lanciato da Papa Francesco su Twitter per pregare per la pace in Siria. Anche il digitale, in fondo, fa parte ormai del nostro quotidiano e va integrato tra gli spazi della prossimità.
Nello spazio pubblico la comunicazione ecclesiale deve essere a servizio della gente e così renderà un contributo anche alla società nel suo insieme. Lo lascia intendere il teologo Canobbio quando scrive: “Abituare le persone a riflettere criticamente, a trovare forme espressive non stereotipate, a formarsi opinioni ragionate, a manifestare il proprio ponderato pensiero, significa formare cristiani adulti. Significa altresì educare persone che anche nella società civile non si lascino imbonire da qualsiasi guru (o supposto tale) che si presenti. Giuseppe Prezzolini, con non poco ironia, aveva fondato l’Accademia dei ‘apoti’, cioè di coloro che ‘non la bevono’. Perché la Chiesa non potrebbe diventare il luogo nel quale le persone si educano ad accogliere con atteggiamento responsabilmente critico quanto si propone?”[9]. A questa possibilità noi crediamo sul serio e il corso Anicec, la cui piattaforma evoluta verrà presentata nel pomeriggio, vuol esserne un passo concreto, grazie alla collaborazione di tutti voi.
Mons. Domenico Pompili
[1] Cfr. E. Baragli, L’Inter Mirifica. Introduzione – storia – discussione – commento – documentazione, Roma, 1969, 159.
[2] R. Laurentin, L’enjeu du Concile. Bilan de la deuxiéme session, Paris, 1965, 1965
[3] E. Baragli, L’Inter Mirifica…, 139.
[4] Cfr. P. A. Soukup, Teologia e comunicazione. Il pensiero di W. J. Ong, in Civ Catt 2013 II 223-237.
[5] Cfr. Censis/Ucsi, 11 Rapporto sulla comunicazione. L’evoluzione digitale della specie, Roma, 2013, 2-3. “Poco prima si legge: “Tendiamo a non rendercene conto pienamente perché, prese una alla volta, le cose che facciamo con i computer connessi a Internet sembrano assomigliare a quelle che facevamo anche prima – scrivere testi, scambiarsi messaggi, ascoltare la radio, guardare film e programmi televisivi, ecc. -, solo semplificate e amplificate. Quello che però non fa parte della natura umana è la possibilità di annullare le distanze spazio-temporali per connettersi istantaneamente con qualunque parte del mondo e accedere a qualsiasi contenuto. Anche prima della scoperta del fuoco si mangiava, ma il passaggio dai cibi crudi a quelli cotti ha proiettato l’umanità in una dimensione completamente diversa. Così, anche prima di Internet si comunicava, però erano le coordinate di spazio e tempo a determinare l’ambito all’interno del quale si produceva la nostra esperienza, mentre ora è proprio questo presupposto a risultare profondamente modificato” (pag 2).
[6] A ogni inizio di pontificato – ha detto senza toni di scandalo l’alto funzionario vaticano – i circuiti mediatici decidono che tipo di etichetta affibbiare al nuovo Papa. Ne nasce a volte una narrativa anchilosata, tutta irrigidita dall’intento di cercare conferme alle proprie chiavi interpretative preconfezionate. Nei primi sei mesi di pontificato, Papa Francesco sembra aver dribblato la mediazione degli “esperti” e degli addetti ai lavori: con la sua predicazione quotidiana, rilanciata online soprattutto grazie ai siti di Radio Vaticana, dell’Osservatore Romano e dalla piattaforma mediatica www.news.va, tutti possono ascoltare e vedere ciò che il Papa ha detto, fatto e scritto, a cominciare dalle omelie quotidiane nella cappella della Domus Sanctae Marthae. «Così» ha chiarito Wells «ognuno può tirare le proprie conclusioni, perché le parole di Papa Francesco sono spesso diverse da quelle che gli vengono attribuite da certi organi di stampa». Con questo libero accesso sempre garantito a tutti – ha riconosciuto Wells - «La gente non deve più passare attraverso filtri per ricevere quello che il Papa dice» (Cfr. G. Valente, Il Papa ‘senza filtri’, in Vatican Insider. 21.10.2013).
[7] Cfr. M. Carroggio- B. Mastroianni-F. Gagliardi, La relazione con i media. L’ufficio stampa delle istituzioni senza scopo di lucro, Roma 2012.
[8] Cfr. A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco, in CivCatt 2013 III, 462: “La prima riforma deve essere quella dell'atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato" .
[9] G. Canobbio, Chi ha diritto di parola nella Chiesa?, in La Rivista del Clero Italiano, 2/2013, 99.