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«Cristo è risorto, apriamoci alla speranza»

​Il richiamo di Papa Francesco nella solenne Veglia pasquale nella Basilica di San Pietro, durante la quale ha battezzato 12 catecumeni da tutto il mondo. Le foto di Romano Siciliani. Domenica dopo la Messa il Regina Coeli e il messaggio Urbi et Orbi.

Le foto di questo articolo sono di Imagomundi di Romano Siciliani

C'è «tanto bisogno oggi» di speranza. E i cristiani sono chiamati «a portare l’annuncio di Pasqua», cioè «a suscitare e risuscitare la speranza» nei «cuori appesantiti dalla tristezza» di «chi fatica a trovare la luce della vita». È questo il messaggio che papa Francesco ha lanciato a tutta la Chiesa durante la la Veglia della Notte Santa di Pasqua, la madre di tutte le Veglie, celebrata nella Basilica di San Pietro in Vaticano.

Nell’omelia preparata per l’occasione, il Pontefice ha commentato il racconto del Vangelo di Luca con Pietro che non si fa assorbire da «rimorsi», «paura» e «chiacchiere continue», che non cede «alla tristezza e all’oscurità», ma corre al sepolcro da dove ritorna «pieno di stupore». E con le donne che partite per «un’opera di misericordia» (portare gli aromi alla tomba) sono «scosse» dalle parole degli angeli: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?». Anche l’umanità di oggi, ha spiegato il Papa, come Pietro e le donne non possono «trovare la vita restando tristi e senza speranza».

E ha esortato tutti ad aprire «al Signore i nostri sepolcri», affinché «Gesù entri e dia vita». È Lui infatti che «desidera venire e prenderci per mano», per «trarci fuori dall’angoscia». Ma la «prima pietra» da far rotolare è proprio «la mancanza di speranza che ci chiude in noi stessi». Ecco quindi l’invocazione al Signore affinché «ci liberi» dalla «terribile trappola» di «essere cristiani senza speranza», cristiani cioè che vivono «come se il Signore non fosse risorto e il centro della vita fossero i nostri problemi».

La speranza, ha ribadito Papa Francesco, non è «semplice ottimismo» e nemmeno «un atteggiamento psicologico». Infatti «la speranza cristiana» è un «dono» di Dio che non delude perché lo Spirito Santo «è stato effuso nei nostri cuori». E «il Consolatore» non «elimina il male con la bacchetta magica», ma infonde «la vera forza della vita», che non è «l’assenza di problemi», ma «la certezza di essere amati e perdonati sempre da Cristo.

La cronaca
È iniziata alle 20.30 la solenne Veglia di Pasqua con il Papa nella Basilica di San Pietro, con la benedizione del fuoco nell’atrio della Basilica e la preparazione del cero pasquale. Poi la processione verso l'altare con il cero acceso e il canto dell'Exultet, a cui fanno seguito la liturgia della Parola e la liturgia battesimale.

Vedi il libretto della celebrazione

Sono 12 i catecumeni adulti - 8 donne e 4 uomini, provenienti dall'Albania (6), dalla Corea (2), nonché da Italia, Camerun, India e Cina (1 ciascuno) - a cui il Papa ha amministrato i Sacramenti dell'Iniziazione cristiana (battesimo, cresima e prima comunione).

Chi sono i dodici catecumeni

La Domenica di Pasqua il Vangelo in latino e greco
Domani, domenica, papa Francesco celebra la Messa per la Solennità di Pasqua. Con il Vangelo proclamato in latino e in greco e, sempre in greco, l’augurio "ad multos annos" rivolto al Papa.

Come di consueto le preghiere dei fedeli soaranno recitate in varie lingue. In arabo «per la Santa Chiesa di Dio». In inglese «per i popoli inquieti della terra». In russo «per gli increduli e i duri di cuore». In tedesco «per i battezzati». In cinese «per i sofferenti e le persone sole».

Al termine della liturgia viene recitato il Regina Coeli, la preghiera mariana che sostituisce l’Angelus per tutto il periodo pasquale, e viene letto il consueto Messaggio Urbi et Orbi. Infine il Papa invoca la concessione dell’indulgenza «a tutti i fedeli presenti e a quelli che ricevono la sua benedizione, a mezzo della radio, della televisione e delle nuove tecnologie di comunicazione». Come accade ormai da trent’anni sono i fioristi olandesi a rendere omaggio alla celebrazione presieduta dal Pontefice con la decorazione di Piazza San Pietro con oltre 35mila fiori e piante.

(G.C.)

© Avvenire, 26 marzo 2016

 

Così il mondo per noi è diventato Emmaus

 

Semplice è l'origine

 

Jacopo Carrucci detto il Pontormo, Cena in Emmaus

«Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / – almeno – d’esistere». Così il poeta Giorgio Caproni scriveva in una delle sue poesie, e commentava in un’intervista: «Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni».

Dove è questo Dio? Su quali strade? Su quella di Emmaus. Un santo contemporaneo ha detto infatti che tutte le strade del mondo sono diventate Emmaus (san Josemaría Escrivá, “Cristo presente nei cristiani”). Si riferisce, con intuizione folgorante, ad una delle pagine del Vangelo più belle, con la quale non a caso Luca (cap. 24) conclude il suo Vangelo e dà il “la” alla storia del cristianesimo così come sarà sempre.

Vi si narra la scena in cui due discepoli dopo la morte di Gesù se ne tornano, disperati, da Gerusalemme al loro paesino, Emmaus, con il cuore pesante dopo essersi illusi che Cristo fosse veramente il Salvatore.

La morte ha spazzato via tutto: l'ennesimo fuoco fatuo. Ora rimane solo il tempo della tristezza e il ritorno al grigiore di prima. Ma proprio su quella strada, Cristo risorto, senza essere riconosciuto dai loro occhi tristi, come uno qualsiasi si mette a camminare con loro e chiede perché sono così appesantiti. Li tira fuori da dove si trovano, dalla loro tristezza, non con l'evidenza schiacciante della resurrezione (si sente dare persino dell'ignorante perché non sa nulla di ciò che è successo a Gesù Cristo: mi è sempre piaciuto il gioco che fa con noi, la sua paziente ironia per farci arrivare da soli alla realtà, senza schiacciarci), ma con una chiacchierata pacata e forte di amico, sul far della sera, come quando nella Genesi si narra che Dio passeggiava con gli uomini al fresco della sera: è ricominciato tutto. Poi fa per andar via quando loro si fermano alla locanda per mangiare, non si impone, si fa desiderare, la sua delicatezza verso la nostra libertà mi appassiona e mi appassiona che l'unica vera preghiera che lo costringe a rimanere sia il nostro semplice desiderio che resti con noi.

E a tavola, mentre mangiano come amici, li sorprende e si fa riconoscere nello spezzare il pane, come per due volte Caravaggio ha raccontato nelle sue tele in età diverse della sua vita con un realismo che non è altro che il realismo del cristianesimo: il quotidiano trasfigurato dall'incarnazione di Cristo. In quel momento lo riconoscono e proprio in quel momento lui si sottrae alla loro vista.

Paradossalmente se ne va, rimanendo: proprio in quel pane.

Tutte le strade del mondo sono percorse da uomini e donne impegnati nelle loro battaglie quotidiane, con il volto tirato, presi dai loro pensieri, dalle loro lotte, dalle loro tristezze, dalle loro incertezze, dalla caduta quotidiana delle loro umanissime speranze. Magari hanno inseguito l'ennesima che li ha delusi e sono a caccia di un'altra o di qualcosa che lenisca la delusione, che possa dare senso al ripetersi dei giorni, rinnovandoli sempre, qualcosa per cui valga veramente la pena alzarsi la mattina. Su quelle strade qualcuno con uno sguardo diverso li raggiunge, è esattamente come loro, condivide le loro lotte e pensieri, ma ha una luce negli occhi. Si affianca con la normalità di chi sa essere amico, fa la stessa strada, lo stesso lavoro, condivide le stesse passioni, sogni e sconfitte. Non giudica, ma guarda gli occhi e chiede: perché sei triste? Sa ascoltare la tristezza del volto degli altri, che si sentono tranquilli a confidarsi lungo il cammino, perché finalmente hanno trovato qualcuno a cui possono affidare il peso del loro cuore: un amore tradito, una relazione familiare piena di dolore, un lavoro insopportabile, una condizione fisica critica, un pianto mai affiorato...

Hanno sperato per anni che tutto potesse cambiare, avevano creduto con tutto il loro slancio alla vita come promessa, ma niente: è stata un'illusione. Adesso si limitano a sopravvivere perché vivere fa troppo male, perché per vivere bisogna sperare e non ci sono più le forze, né la voglia di essere ancora delusi e si accontentano di piccolissimi noiosissimi rituali. Eppure l'amico che ascolta ha una luce che illumina proprio quella situazione, una luce che non gli appartiene e che non viene meno, proprio per questo non è triste, anche se porta sul viso gli stessi segni si stanchezza degli altri, perché la vita è dura anche per lui, proprio allo stesso modo. Parla di un modo di guardare il mondo pieno di passione e fuoco, come se avesse il potere di trovare la bellezza in ogni angolo, anche il più oscuro. Non pretende di cambiare il mondo, ma il modo di guardare il mondo: dice le cose con forza, senza lesinare sulla verità, ma lo fa con un tale affetto che non ci sente amari, ma amati. Ci libera dalla tristezza, perché è oltre la tristezza, che ben conosce perché l'ha attraversata, ma che ha disinnescato con una formula che ora ci intriga, ci seduce, ci attira, come una promessa. Il dialogo continua lungo il cammino, ed è fatto di giorni, di settimane, di mesi, stagioni e anni e di cose ordinarie. E quella luce non viene meno e illumina ogni età e stagione, ogni fatica e ogni gioia, ogni sconfitta e ogni desiderio.

Il mondo è lo stesso per tutti, ma per quell'amico il modo di guardarlo è sempre da innamorato. Come fa? Da dove trae origine questa forza ardente e appassionata? Come fa ad essere così pieno di eros? La curiosità e il calore sperimentati portano a chiedere di rimanere di più, di approfondire l'amicizia, di arrivare al segreto che guida quella vita, perché un segreto deve esserci se è così capace di far ardere il cuore e le speranze, in mezzo a tutte queste rovine. Si sta insieme, si cena insieme, si condividono non solo le lotte ma anche il riposo, un bicchiere di vino e il pane. E proprio in quella intimità d'amicizia, il vero dono che un cristiano deve fare al mondo, si fa strada la verità sconvolgente, quasi incredibile proprio per il suo essersi nascosta nella vita di tutti i giorni ed essere lì accessibile, a tavola, e non nei recessi e nelle altezze in cui gli uomini hanno cercato inutilmente Dio per secoli. No, ci dice Caravaggio, è qui, a tavola, con te e me.

Il segreto è che l'Emmanuele è Dio con noi, per questo l'amico non ha paura, perché lui ha scoperto che Dio è con lui, tutti i giorni, sino alla fine, è il Dio vicino, di strada e di tavola: parola e pane. Sentiamo le forze rinvigorirsi e le parole di prima non rimanere fuori di noi, ma entrare dentro di noi, anzi di più: farsi noi, trasformandoci in Parola e Pane per gli altri, per questo lui è sparito, ci sei tu, tocca a te. Così di corsa torniamo per strada a dirlo a tutti, la strada dell'andata, piena di tristezza, la ripercorriamo a ritroso con lena nuova, anche se è notte fonda, anche se siamo stanchi, perché adesso è cambiato tutto, c'è una ragione per camminare, anzi c'è una ragione per correre, c'è una ragione per alzarci ogni mattina. E la ragione è che Dio è mio e io sono suo, nelle 24 ore che ho disposizione, con tutto quello che ci sta dentro, perché l'unità di misura del Vangelo, fateci caso, è “ogni giorno”. Adesso siamo pieni di vita, come uno che ogni giorno s'innamora, perché questo innamoramento non dipende principalmente da noi, ma è dato, se lo vogliamo. Qualcosa ci fa rinascere dall'alto ogni giorno, ed è capace di far rinascere altri.

Non ci sono più strade anonime, c'è solo Emmaus: ogni strada umana, ogni lavoro umano, ogni amore umano, ogni tristezza umana è proprio il luogo dove Cristo cammina con noi, magari con il volto ordinario di un amico, di un'amica. E quell'amico o amica sei tu per gli altri, che cammini con loro (dopo aver camminato e mangiato con Lui), tu che ascolti le loro tristezze e riporti il cuore ad ardere (come Lui ha fatto con te), fino a metterli faccia a faccia con Cristo, in una catena senza fine. Quello è il momento in cui devi farti da parte, adesso tocca a lui. La Resurrezione non è una lezione, non è uno sfolgorare schiacciante, ma è una passeggiata accorata tra amici con parole vere, fino a trovare l'origine di ogni speranza nella Parola e nel Pane. E subito ripartire, perché è tutto troppo bello, tutto troppo grande, per restarsene paralizzati e tristi. Adesso è tutto nuovo. E tu e io sappiamo il segreto.

Niente è più erotico del cristianesimo, perché nessuno ama come Cristo e il cristianesimo è diventare un altro Cristo, lo stesso Cristo, tanto da poter dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».

Alessandro D'Avenia

© Avvenire, 26 marzo 2016

 

Così piaghe e crisi diventano benedizioni

 

Con occhi risorti

Sinai, convento monastero di Santa Caterina - Icona del XIII sec

Resurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.

Se resurrezione è parola umana, allora è anche una parola dell’economia. C’è molta resurrezione nell’economia, nelle imprese, nel mondo del lavoro. La possiamo vedere tutte le mattine, anche in questi tempi di crisi, soprattutto in questi tempi di crisi. Ma dobbiamo imparare a vederla, riconoscerla, guardando il mondo con “occhi di resurrezione”. Non è facile vedere e riconoscere i risorti e le risurrezioni, per molte ragioni, ma soprattutto perché nei corpi dei risorti ci sono le stigmate della passione. E le ferite nostre e degli altri ci fanno paura, fuggiamo da esse e non riusciamo a viverle come l’inizio della resurrezione e il sacramento che l’accompagna sempre. E cercando la resurrezione nell’assenza delle piaghe e del dolore, non la troviamo, o magari la confondiamo con il successo. Non vediamo la resurrezione perché pensiamo che sia l’anti-croce o l’opposto della passione, e non il suo compimento. Fuggiamo dai crocifissi e dagli abbondonati, e non incontriamo i risorti che si trovano soltanto lì. La resurrezione comincia sulla croce, e i suoi segni sono per sempre.

Il Cristo risorto è la resurrezione del suo corpo ferito. La novità di questa resurrezione sta anche nella sua corporeità. Il corpo risorto non è però un ritorno al corpo del giovedì, la resurrezione non è un evento che cancella i segni della flagellazione e della Via Crucis. Il Cristo appare con le sue piaghe, la luce della resurrezione non aveva eliminato le stigmate del venerdì santo. La gloria del risorto non è allora la gloria dell’eroe antico: la sua è una gloria ferita, umile, debole. I risorti che appaiono senza piaghe sono fantasmi, illusioni, sogni, o ideologie, e quindi la loro luce è finta. Le nostre resurrezioni iniziano mentre gridano gli abbandoni sulle croci. E se non impariamo a gridare, non impariamo neanche a risorgere. Non capiamo la logica delle beatitudini se non la guardiamo dalla prospettiva di un risorto con le stigmate.

Le piaghe che restano dopo la resurrezione sono un elemento fondamentale per capire l’economia della salvezza, ma anche la salvezza dell’economia. Se le ferite restano nei corpi risorti, allora non esiste una economia dei crocifissi e una economia dei risorti. La croce e la resurrezione sono dentro la stessa economia, dentro la stessa vita. Per trovare le vere resurrezioni nella nostra società ed economia, dovremmo allora andarle a cercare dove nessuno le cerca più. Tra le tante imprese che stanno nascendo dagli immigrati e dalle loro ferite, nelle molte cooperative che fioriscono dentro le carceri, tra quei giovani che decidono di non lasciare la loro terra e imparano umilmente gli antichi saperi delle mani, in mezzo a quei lavoratori che non si arrendono di fronte alle molte ragioni della proprietà e del mercato e fanno risorgere la loro azienda. Senza commettere l’errore di pensare che le ferite che hanno generato la resurrezione un giorno spariranno, e sarà tutto e solo luce.

Quando nascondiamo i segni delle piaghe, le nostre storie di resurrezione, anche quelle autentiche, non diventano luoghi credibili di speranza per chi si trova ancora nella stagione della croce. Nella nostra economia ci sono troppi sfiduciati che aspettano solo di poter mettere le mani nelle piaghe delle resurrezioni, per poter capire e amare diversamente anche le proprie piaghe non ancora risorte. Le resurrezioni non si trovano al termine delle ferite, ma dentro di esse.

Tra i molti significati della parola pèsach, la prima pasqua, c’è anche il verbo zoppicare (psh). Quando il lettore della Bibbia legge “zoppicare” pensa a Giacobbe, il grande zoppicatore. Nel guado notturno del fiume Yabbok, Elohim lo ferì al nervo sciatico, lo rese zoppo, gli cambiò il nome in Israele. Secondo una tradizione rabbinica Giacobbe zoppicò per il resto della sua vita. Nel combattimento notturno, nel guado del Mar Rosso rinacque il nuovo popolo, ma il segno-ricordo della schiavitù d’Egitto non è mai scomparso dal suo corpo. Dal grande combattimento del Golgota fiorì un corpo risorto con le stigmate. Le resurrezioni sono ferite trasformate in benedizioni, e mai cancellate. Quando si risorge, le ferite restano, ma diventano luminose. Le vere resurrezioni si riconoscono dalla luce che irradia dalle loro piaghe.

Luigino Bruni

© Avvenire, 26 marzo 2016

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