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E don Puglisi parla ancora dell’Unico Necessario

La rivoluzione è portare il Vangelo e la sua forza liberatrice

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«Essere testimoni è necessario soprattutto per chi conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile. A lui il testimone deve infondere speranza facendo comprendere che la vita vale se è donata». Questo scriveva don Giuseppe Puglisi, morto per mano della mafia, che ha per dio solo e soltanto il potere legato al crimine.

Che così sia stato lo dimostra adesso, dopo un lungo e complesso processo canonico, il decreto con cui Papa Benedetto XVI riconosce il martirio in odium fidei del sacerdote e ne autorizza l’auspicata beatificazione. Nei 19 anni che ci separano dall’assassinio di padre Puglisi, da quel 15 settembre del 1993, la verità è infine emersa. Quella giudiziaria, vergata con inchiostro indelebile dalla Cassazione, dice che l’omicidio fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella. Chi diede l’ordine di ucciderlo lo fece non per eliminare un pericoloso nemico, alla stregua di magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile, ma per cercare di fermare un luminoso testimone di fede.

Puglisi era persona tutta di un pezzo, agiva umilmente, con semplicità, senza cercare visibilità, antieroe: annunciava e proclamava l’Unico Necessario, il Padre Nostro. E fu proprio l’essere un uomo libero, armato della sola forza della Parola, a costargli la vita, giustiziato dall’odio che i mafiosi nutrivano verso il suo munus sacerdotale. La sua figura riveste un ruolo di grande importanza per la società civile, per la Chiesa universale, in particolare per la Chiesa palermitana e siciliana e per tutte quelle che si confrontano sul proprio territorio con le organizzazioni criminali, perché il suo sacrificio ha svelato il grande inganno della mafia, sedicente portatrice di religiosità. Il suo esempio è stato ed è così forte da aver attraversato il tempo: nei 19 anni trascorsi, Brancaccio, Palermo, la Sicilia, l’Italia, il mondo non lo hanno dimenticato. Centinaia sono le strade, le scuole, le piazze che portano il suo nome.

Diversi i libri e i film a lui dedicati. Ma, soprattutto, dal 1993 ad oggi, oltre 80 giovani sono entrati in seminario folgorati anche dalla sua luminosa testimonianza e migliaia di persone hanno continuato a visitare la chiesa di Brancaccio, lasciando un segno e una preghiera nei luoghi dove lui aveva esercitato il suo ministero.

Dunque, per dirla con Tertulliano, «nel sangue dei martiri v’è il seme dei cristiani». E nel sacrificio di don Puglisi v’è un chiaro esempio di fede e di impegno, che acquista un rilievo ancor maggiore in tempi segnati dalla crisi dei valori e dell’identità. Oggi per il sacerdote palermitano si aprono le porte per l’elevazione agli onori degli altari. E contrariamente alla prassi marxista, per la quale, come ha scritto Pavel Evdokimov nel suo L’amore folle di Dio, «il santo è un uomo inutile», per la Chiesa cattolica invece è «questa inutilità, o meglio questa totale disponibilità verso il Trascendente, a porre ineluttabilmente le questioni di vita e di morte ad un mondo senza memoria». Così, anche in questa radiosa storia di martirio, si dimostra che la vera rivoluzione è portare il Vangelo con la sua concretezza liberatrice, che cancella il consenso verso i mafiosi e lo indirizza verso Dio, perché «un santo, anche nel massimo isolamento o nascondimento, vestito di spazio e di nudità», ricorda ancora Evdokimov, «porta sulle sue fragili spalle il peso del mondo, la notte del peccato: egli protegge il mondo dalla giustizia divina. Quando il mondo ride, il santo piangendo dona agli uomini la misericordia divina».

Uccidendolo, credevano di averlo messo a tacere. Si illudevano: Puglisi parla ancora.


 
Vincenzo Bertolone - Postulatore della causa di beatificazione, arcivescovo di Catanzaro-Squillace
 
© Avvenire, 1 luglio 2012
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