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III Domenica del Tempo Ordinario anno B. L’ora della vocazione

C’è una voce che vien da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae a sé

Ognuno di noi, soprattutto se anziano ma non colpito da demenza senile, va sovente con i suoi ricordi al passato, in particolare a quello che è stato l’inizio, il cominciare di una vicenda, di un amore che lo ha segnato per tutta la vita e che ancora lo fa vibrare. Anche il cristiano fa questa operazione di cercare nel passato, quasi per rivivere l’ora della conversione; o meglio, per moltissimi l’ora della vocazione, quando si è diventati consapevoli con il cuore che forse ci era rivolto un monito, che forse il Signore voleva che fossimo coinvolti nella sua vita più di quanto lo eravamo stati fino ad allora. Noi la chiamiamo, appunto, ora della vocazione.

La pagina del vangelo di questa domenica, in cui torniamo ad ascoltare il vangelo secondo Marco, vuole essere proprio un racconto di vocazione in cui può specchiarsi chi predispone tutto per ascoltare la chiamata di Gesù, oppure può essere l’occasione per ricordarla come un evento del passato, che può avere ancora o non avere più forza, addirittura significato. Gesù torna in Galilea, la terra della sua infanzia, per iniziare a proclamare un messaggio che sentiva dentro di sé come una missione da parte di Dio Padre. Incomincia questa vita di predicazione e di itineranza dopo che Giovanni, il suo rabbi, il suo maestro, colui che lo ha educato nella vita conforme all’alleanza con Dio e lo ha anche immerso nelle acque del Giordano (cf. Mc 1,9), è stato messo in prigione da Erode, è stato ridotto al silenzio, lui che era “voce” (cf. Mc 1,3; Gv 1,23). È la fine di chi è profeta, e Gesù subito se la trova davanti come necessitas umana: se egli continuerà sulla strada del suo maestro, prima o poi conoscerà la persecuzione e la morte violenta.

Gesù inizia a proclamare la buona notizia, il Vangelo di Dio, nella consapevolezza che il tempo della preparazione, per Israele tempo dell’attesa dei profeti, che il tempo della pazienza di Dio ha raggiunto il suo compimento, come il tempo di una donna gravida. Alla fine della gravidanza c’è il parto, e così Gesù annuncia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Ecco la sintesi della sua predicazione: c’è l’inizio di un tempo nuovo in cui è possibile far regnare Dio nella propria vita; affinché questo avvenga occorre convertirsi, ritornare a Dio, e poi credere alla buona notizia che è la presenza e la parola di Gesù stesso. È solo un breve versetto che esprime questa novità, eppure è l’inizio di un tempo che dura ancora oggi e qui: è possibile che Dio regni su di me, su di te, su di noi, e così accade che il regno di Dio è venuto.

Ormai, grazie alla presenza di Gesù, alla sua vita e alla sua parola, è possibile a ogni persona lasciar regnare su di sé solo Dio, non gli idoli o altri padroni. Ma perché questo possa avvenire occorre la fede: “Credete, abbiate fede-fiducia!”. Questa parola di Gesù, capace di scuotere oggi come allora i cuori addormentati, è rivolta a noi che siamo sempre tentati di confidare sulle nostre opere, finendo così per svuotare la fede. A noi che domandiamo: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” (Gv 6,28), Gesù risponde: “Credete!”, per insegnarci che “questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Sì, il cristiano non dimentichi mai che le molte opere buone sono sempre opere “nostre”, ma tutte trovano la loro radice vivificante e il loro senso nell’unica opera di Dio, la fede. “Tutto è possibile a chi crede” (Mc 9,23), dirà con forza Gesù…

Di fronte a questa gioiosa notizia, ma anche a questa nuova possibilità offerta dalla presenza di Gesù, ci siamo noi uomini e donne, che ancora oggi ascoltiamo il Vangelo. Che cosa facciamo? Come reagiamo? Stiamo forse vivendo quotidianamente, intenti al nostro lavoro, alla nostra occupazione quotidiana per guadagnarci da vivere, poco importa quale sia; oppure siamo in un momento di pausa; oppure siamo con altri a discorrere… Non c’è un’ora prestabilita: di colpo nel nostro cuore, senza che gli altri si accorgano di nulla, si accende una fiammella. “Chissà? Sento forse sento una voce? Riuscirò a rispondere ‘sì’? Sarà per me questa voce che mi chiama ad andare? Dove? A seguire chi? Gesù? E come faccio? Sarà possibile?”. Tante domande che si intersecano, che svaniscono e ritornano a ondate. Ma se sono ascoltate con attenzione, allora può darsi che in esse si ascolti una voce più profonda di noi stessi, “più intima del nostro stesso intimo” (Agostino), una voce che viene da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae…

Qui nel vangelo secondo Marco questo processo di vocazione è sintetizzato e per così dire stilizzato dall’autore, che narra solo l’essenziale: Gesù passa, vede e chiama; qualcuno ascolta e prende sul serio la sua parola: “Seguimi!”, e si coinvolge nella sua vita. È ciò che è vero per tutti ed è inutile dire di più: sarebbe solo un inseguire processi psicologici… Ma l’essenziale è stato detto, una volta per tutte: accolta la vocazione, si abbandonano le reti, cioè il mestiere, si abbandonano il padre e la barca, cioè l’impresa famigliare, e così ci si spoglia e si segue Gesù. Obbedire alla chiamata del Signore coincide con un rinascere a vita nuova, con un ricominciare. E ogni nascita richiede una buona separazione: solo chi ha fatto una buona separazione, infatti, sarà capace di dare vita a una nuova unione, con Cristo e con la comunità dei fratelli e delle sorelle.

Attenzione però: la vocazione è un’avventura piena di grandezza ma anche di miseria! Per comprenderlo, è sufficiente seguire nei vangeli la vicenda di questi primi quattro chiamati. Il primo, Pietro, sul quale Gesù aveva riposto molta fiducia, vivendo vicino a lui spesso non capisce nulla di lui (cf. Mc 8,32; Mt 16,22), al punto che Gesù è costretto a chiamarlo “Satana” (Mc 8,33; Mt 16,23); a volte è distante da Gesù fino a contraddirlo (cf. Gv 13,8); a volte lo abbandona per dormire (cf. Mc 14,37-41 e par.); e infine lo rinnega, dice di conoscere se stesso e di non avere mai conosciuto Gesù (cf. Mc 14,66-72 e par.; Gv 18,17.25-27). Andrea, Giacomo e Giovanni in molte situazioni non capiscono Gesù, lo fraintendono e non conoscono il suo cuore. I due figli di Zebedeo, in particolare, sono rimproverati aspramente da Gesù quando invocano un fuoco dal cielo per punire chi non li ha accolti (cf. Lc 9,54-55); e sempre essi, al Getsemani, dormono insieme a Pietro. Ma c’è di più, e Marco lo sottolinea in modo implacabile, con un contrasto che non potrebbe essere più netto: coloro che qui, “abbandonato tutto seguirono Gesù”, nell’ora della passione, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50)…

Povera sequela! Sì, la mia sequela, la tua sequela, caro lettore o lettrice. Non abbiamo davvero molto di cui vantarci… Dobbiamo solo invocare da parte di Dio tanta misericordia e ringraziarlo perché, nonostante tutto, stiamo ancora dietro a Gesù e tentiamo ancora, giorno dopo giorno, di vivere con lui. E non dimentichiamolo: la promessa di Gesù è più forte delle nostre infedeltà, delle infedeltà dei suoi discepoli. Ecco perché essi, dopo l’alba di Pasqua, saranno ancora pescatori di uomini e annunciatori del Regno, capaci di trasmettere a tutti la buona notizia. Chi infatti ha ascoltato la buona notizia e vi ha aderito con tutta la propria vita, sarà sempre capace – nonostante sé! – di annunciare agli altri il Vangelo del Regno che viene e che, in Gesù risorto, si fa vicino a tutti e a ciascuno.

Enzo Bianchi

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