Arcivescovo

S.E. Giuseppe

Satriano

IN AGENDA

III Domenica del Tempo Ordinario anno B. Guardare, chiamare: voci del verbo amare

imgpa03.jpg

Convertitevi e credete al vangelo

Uno sguardo e una voce, una rinuncia e una sequela: il mistero di una vocazione è tutto qui. Abbiamo ascoltato, dal santo vangelo secondo Marco, il racconto dei primi chiamati: Gesù vide Simone e Andrea, mentre gettavano le reti in mare; vide anche Giacomo e Giovanni, e li chiamò; ed essi, lasciato tutto, lo seguirono. Guardare, chiamare, lasciare, seguire: di questi verbi semplici e densi, proviamo a fare un’analisi non filologica, ma “teologica”.

1. Vide. Non è una annotazione banale: è ovvio che per rivolgersi a qualcuno, bisogna pure vederlo... Si tratta di uno sguardo che dice una scelta e rivela un amore: dice e rivela una scelta d’amore. È uno sguardo che si appunta su un individuo, lo mette a fuoco dalla folla, lo tira fuori dal mucchio grigio e anonimo della massa, insomma ne fa un prescelto, un eletto, un prediletto. Nel racconto triste della vocazione “abortita” del giovane ricco, lo sguardo esprimerà questa intensa vibrazione di affetto: “fissatolo, lo amò” (Mc 10,21). Questa dello sguardo è una costante strutturale dei racconti biblici di chiamata. Sarà così anche per Levi-Matteo (Mc 2,14), ma era già stato così per Mosè: “il Signore (lo) vide che si era avvicinato” (Es 3,4).
Noi non sappiamo il colore degli occhi di Gesù, ma possiamo affermare in tutta certezza che anche nello sguardo il Figlio di Dio era davvero... tutto suo Padre! Perché Gesù vede come vede Dio, e Dio non vede mai in modo neutro, impassibile o freddamente statistico. Vede e si commuove: e decide di intervenire e di liberare, di eleggere e destinare a una missione. Come nella vocazione-tipo di Mosè, a cui il Signore dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto” (Es 3,4). Lo sguardo di Dio non è in-parziale: nel suo campo visivo non entrano i monumenti faraonici di Ramses II, come nel suo raggio uditivo accedono solo le grida di lamento che salgono dagli schiavi israeliti (Es 2,24; 3,9). E però, dopo che lo sguardo di Dio si è posato su di esse, le cose non restano più quelle di prima, e la persona è destinata a diventare un’altra. Gesù irradia uno sguardo che configura una nuova identità, crea in anticipo un tratto nuovo nel chiamato, prima ancora che egli se ne renda conto. Si profila un aspetto fondamentale della sequela: l’iniziativa libera e gratuita di Gesù. Il suo sguardo di elezione ha la forza della “conoscenza” di Dio che precede il profeta come Geremia, o l’apostolo come Paolo, così come ogni credente: fin dal grembo materno (cfr. Gal 1,15; 4,9).

2. Chiamò. Gesù vede le persone con il loro nome; non vede dei “pescatori”, cioè individui nascosti nell’anonimato generico della professione - che fossero pescatori lo si dirà soltanto dopo. Non vede neanche “due fratelli” (cfr. invece Mt 4,18.21) - designazione meno anonima, ma ancora sfuggente la singolarità. Per Gesù la persona viene prima del suo ruolo, e anche prima del suo gruppo sanguigno. Gesù vede “Simone e Andrea, fratello di Simone”, “Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello”. Così il “conoscere” divino da parte di Gesù genera una corrente calda di partecipazione tra il chiamante e il chiamato, e instaura una intima relazione interpersonale “io-tu”.
Ma c’è ancora un dettaglio, tutt’altro che marginale. Questa prima chiamata - come poi le altre - non ha luogo nel quadro di una solenne liturgia al tempio nella città santa, come avvenne per il profeta Isaia; si compie nel contesto feriale di una normalissima riva del lago di Galilea. Lì Gesù “vede” Simone e Andrea: non li trova nell’atto di recitare salmi o di fare un digiuno sacro o sul punto di intraprendere un devoto pellegrinaggio per andare a sciogliere un voto al tempio; li vede nell’esercizio del loro umile, duro mestiere.
A questo punto lo sguardo si fa voce. Gesù chiama personalmente i discepoli, mentre nel giudaismo contemporaneo erano i discepoli che cercavano e si sceglievano il maestro. Ancora una volta il tratto è tipicamente divino: così fa Dio, che ci ama per primo e si pone lui alla ricerca di noi, pecore facili a sbandare e a perdersi. La chiamata non è un successo dell’uomo: è un dono, vera grazia di Dio. Il discepolo non conquista il Maestro, ma viene “afferrato” da lui. La sequela non è una iniziativa del discepolo, ma una risposta al Maestro che passa e chiama.

3. “Vi farò diventare pescatori di uomini”. È promessa inaudita, e la promessa è anch’essa componente immancabile nella struttura della chiamata. Così era stato per Abramo: “Farò di te un grande popolo e diventerai una benedizione” (Gn 12,3). Così era avvenuto per Mosè: “Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte” (Es 3,12). Così pure per Davide: “Il Signore ti farà grande, poiché lui ti farà una casa” (2Sam 7,14).
Il detto di Gesù sulla pesca “di uomini” per delineare il futuro delle due coppie di fratelli è una metafora tutt’altro che dolce e innocua. Dà contorni netti e taglienti alla chiamata e all’espandersi inarrestabile della sequela. Lo sfondo battagliero delle metafore di pescatori, reti e pesci, contenuto nell’AT, non è scomparso. In bocca a Gesù “pescare uomini” diviene la consegna di una sequela missionaria, ma la “pesca” non è per la cattura degli uomini e ancor meno per la loro morte: è per la loro liberazione e salvezza. Così infatti intende Luca, che rende il termine corrente (alieus) per dire “pescatore” con zogron (Lc 5,10), che letteralmente significa “prendere esseri vivi”. Pietro e i suoi compagni saranno dei pescatori speciali: prenderanno i pesci-uomini non per farli morire, ma per farli rivivere. Scriveva s. Girolamo: “I pesci che sono estratti dal mare, muoiono. Gli apostoli invece ci hanno estratti dal mare di questo mondo e ci hanno pescati perché da morti fossimo vivificati”. Infatti il “mare” - secondo la mentalità biblica - è simbolo del “male”.

4. Ecco allora le componenti di una chiamata-tipo: da parte di Gesù, uno sguardo d’amore, una parola forte, una promessa sicura. Ora ci sarebbe da fare l’analisi “teologica” dei verbi del discepolo: lasciare, seguire, verbi che dicono un distacco radicale (dal lavoro, dagli affetti) e una sequela immediata, generosa, totale. Ma una risposta così deve avere una spiegazione necessaria e sufficiente. L’unica ragione di tutto è in quel pronome personale: seguite-me. I quattro pescatori seguono Gesù “subito” - insiste Marco - non perché conoscono le sue dottrine o perché ne intuiscono le regole di vita, ma perché lo sentono affidabile, gli fanno credito della loro fiducia e gli consegnano tutto il loro futuro.
Ancora una volta è credere il primo verbo per il discepolo, un verbo che contiene tutti gli altri: lasciare, seguire, testimoniare... È il verbo che ci apprestiamo a proclamare ora nella liturgia per declinarlo poi - subito - nella vita.


Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008

Per il Video-Commento al Vangelo, clicca qui

Scarica il ritornello al Salmo Responsoriale, clicca qui

Scarica il modulo salmodico, clicca qui 

 

Prossimi eventi