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IV Domenica di Avvento anno B. Affidatevi!

Davide e Maria: due persone, due storie, due cammini verso Dio, due diversi modi di credere.

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1. Davide. In un insolito romanzo di suggestiva reinvenzione biblica - una sorta di autobiografia immaginaria del grande re - lo scrittore Carlo Coccioli traduceva il brano della 1ª lettura, con queste parole messe in bocca al santo patriarca: “Mi assicurano che non sono due le nostre anime, la sensitiva e la spirituale, come generalmente si ritiene, ma sono tre, c’è la terza: la più sublime, una superanima. Sarebbe una specie di lancia brandita verso gli abissi dei cieli. Ebbene, le mie tre anime vedevano già, esaltandosi, il tempio del Dio Uno dominare Gerusalemme. Io, un cane morto, una pulce, in un palazzo di materiali preziosi, e il Padrone del mondo sotto una tenda... Scorato, disgustato di me, camminavo nervosamente per la stanza. La casa dell’Eterno, io Davide avrei voluto costruirla subito con le mie mani. Come avevo potuto non pensarci prima?”. E alla fine, dopo il secondo incontro con il profeta Natan, il santo re confessa: “Non costruirò il Tempio, va bene: però la gioia è tutta di Davide, figlio di Isaia! Odo la mia voce sommessa: «andrò a prosternarmi davanti a Lui, per ricordarmi che non sono nulla, a Lui il cui decreto proietta ora la mia stirpe fino all’estrema frontiera del tempo...»”.
Ardito e temerario, il desiderio di Davide: costruire una casa a Dio, il quale però non accetta. Come mai? Eppure i suoi sentimenti sembrano buoni. Sembrano... In realtà denotano, secondo qualche interprete, la malcelata intenzione di sdebitarsi con Dio; mascherano la tentazione di poterlo accontentare con una casa bella come la reggia, in modo da continuare così ad assicurarsene la protezione. Insomma il sogno del tempio nasconderebbe il subdolo tentativo di accattivarsi Dio, di tenerlo buono dentro una sorta di prigione dorata, di ricattarlo per garantirsi il successo dei propri progetti.
Modestamente non sarei proprio sicuro di una interpretazione così tendenziosa. Forse, più semplicemente, Davide, in uno slancio di gratitudine, sogna di poter fare qualcosa di grande per quel Signore che lo ha portato - lui, un povero pastorello - al vertice vertiginoso di essere sulla terra il luogotenente di Dio. Ma Dio non approva il suo progetto: non è Davide che costruirà una casa (il tempio) al Signore, ma è il Signore che costruirà una casa (il casato) a Davide.

2. Maria. “Non aspettavo niente” - confida Maria, in una sorta di confessione autobiografica, secondo la finissima ricostruzione di F. Parazzoli, in Gesù e le donne. “Vergine, desideravo conservare la mia verginità. Questo intendevo quando dissi: ‘Non conosco uomo’. Era la mia razionale, legittima obiezione a quella che credetti una profezia: ‘Concepirai nel grembo e partorirai un figlio’. Non ero intimorita per la presenza dell’angelo; era il suo annuncio a turbarmi poiché è terribile fare parte di un disegno di Dio. L’annuncio della sua grazia vuol dire abbandonare la nostra povera logica di uomini, accettare che una vergine possa generare un figlio. Era la logica di Dio a farmi paura (...). I disegni del nostro animo sono come sabbia sotto il vento del grande disegno di Dio. E quando nella mia vita entrò quel vento, cessò di esistere Maria, la piccola vergine ebrea, con i suoi progetti di santità. Poiché anche la mia santità era superata dal progetto di Dio”.
A differenza di Davide, l’umile fanciulla di Nazaret non sogna affatto di poter fare qualcosa di grande per Dio, suo Salvatore; anzi, dopo il misterioso e del tutto inatteso incontro con l’angelo, quando va da Elisabetta, riconosce e canta a gola spiegata che “grandi cose ha fatto in lei il Potente”.
La distanza che corre da Davide a Maria è quella che passa tra il salmo 132 e il salmo 40. Nel primo, viene così espresso il “voto” di Davide: “Non entrerò sotto il tetto della mia casa, / non mi stenderò sul mio giaciglio, / non concederò sonno ai miei occhi / né riposo alle mie palpebre, / finché non trovi una sede per il Signore, / una dimora per il Potente di Giacobbe”. Nel salmo 40 invece possiamo percepire un’eco anticipata del canto di Maria: “Quanti prodigi hai fatto, Signore Dio mio, / quali disegni in nostro favore! / Sacrificio e offerta non gradisci, / non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. / Allora ho detto: “Ecco, io vengo. / Sul rotolo del libro di me è scritto / che io faccia il tuo volere. / Mio Dio, questo io desidero, / nel profondo del mio cuore”.
La distanza che corre da Davide a Maria è quella tra il voler fare qualcosa per Dio e il lasciare che Dio faccia tutto per noi. Questa è la fede più pura e più alta: mettere da parte i nostri progetti, anche i più nobili e più santi, anche quelli intenzionalmente costruiti per fare qualcosa per la santa causa di Dio, e permettere a Dio di essere Dio, il tre volte Santo, perché faccia lui grandi cose “per noi uomini e la nostra salvezza”. E la vetta invalicabile di questa fede sta nell’abbandonare perfino i doni di Dio per abbandonarsi al Dio dei doni, per farsi condurre da lui, per lasciarsi fare completamente dalla sua grazia che salva e che plasma la nuova creatura: “Eccomi, avvenga a me secondo la tua parola”, che è come dire all’angelo: “Dio faccia con me come hai detto tu, messaggero del Signore”.

3. Maria è ricolmata di grazia, e della grazia riconosce umilmente e gioiosamente il primato. Questa parola “grazia” nella Bibbia, prima che al contesto semantico della bellezza, rimanda a quello della benevolenza: non la grazia come tratto di cui io sarei il titolare e che potrei rivendicare come “mio” - come si dice della bellezza (la “mia” bellezza) - ma la grazia come dono dall’alto con cui il soggetto non può avere un rapporto prometeico di produzione o una relazione narcisistica di autoammirazione, ma solo di accoglienza umile e di gioiosa ricezione.
Per il NT la fede è la risposta all’incredibile amore di Dio, che ha sempre il primo posto nell’amore: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ci ha amati per primo” (1Gv 4,10.19). Fede è accogliere l’amore di Dio come fondazione della propria esistenza; è l’atto radicale che apre il successivo cammino dell’uomo agli orizzonti infiniti di una vita vissuta nella pura gratuità dell’amore.
Facile, questa fede di Maria? Sembrerebbe di sì: in fondo non era il sogno di ogni ragazza ebrea quello di diventare la madre del Messia? E invece no, quello della vergine di Nazaret è stato l’atto di fede più difficile della storia. Maria sapeva bene che, secondo la legge mosaica, una ragazza che il giorno delle nozze non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva - secondo l’inflessibile legge mosaica (cfr. Dt 22,20s) - essere portata immediatamente davanti all’uscio della casa paterna e venire lapidata. Né ci abbagli la verità dell’esenzione di Maria dal peccato di origine: la sua in-macolatezza si svela non come impossibilità di peccare, ma come possibilità di non peccare. In altri termini: il fatto di avere il sì a Dio come “tatuato nel cuore” rende la sua fede possibile, non facile né scontata.
Nonostante abbia dovuto affrontare la notte della fede, Maria si fida e si affida al Dio totalmente affidabile: non si arrende risentita, non si consegna rassegnata, non si concede né impaurita né trasognata, ma si abbandona lucidamente e limpidamente, totalmente e liberamente all’Amore. Maria preferisce mille volte essere in debito con l’onnipotente, santo e misericordioso Signore, anziché illudersi di potere pareggiare il conto con lui o addirittura di essere in credito con il suo Salvatore. È la prima credente della nuova ed eterna alleanza, e perciò la prima beata della storia della salvezza: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore!”. Questo è credere per Maria: è far credito al Dio pienamente credibile; è rischiare con lui; è osare con lui fino a credere possibile l’umanamente impossibile.
A lei possiamo allora dire con le parole di s. Bernardo. “O Vergine, dà presto la risposta. Perché tardi? Perché temi? Alzati, corri, apri! Alzati con la fede, corri con la pietà, apri con il tuo consenso!”.
“Ecco la serva del Signore: che avvenga a me secondo la tua parola”.
“E la Parola divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi”.
“Vieni, Signore Gesù; vieni ad abitare in mezzo a noi”.


Mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008

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