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Ss. Corpo e Sangue di Cristo anno B. Il dono di tutta la vita di Gesù

Gesù dona la sua intera persona ai discepoli che, mangiando quel pane e bevendo quel vino, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore. Così egli spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte è un dono agli uomini e un’offerta a Dio.

Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Triunità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini. Quanto al brano evangelico scelto, il messale italiano in questa annata B propone la lettura del racconto dell’ultima cena nel vangelo secondo Marco, che ora tentiamo di comprendere come parola del Signore.

Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sappia dove la celebrerà. Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la camera alta, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena. Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore.

Ed ecco che nell’ora della cena Gesù fa dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata così nelle chiese.

Innanzitutto, Gesù prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione e il ringraziamento a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. È significativo soprattutto il gesto dello spezzare il pane, che già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), che esprime una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù dona la sua intera persona ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte è un dono agli uomini e un’offerta a Dio.

Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo dando il pane, così dà il suo sangue dando il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, dà la sua vita, rappresentata nella cultura semitica dal sangue. Qui si deve cogliere il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta a un popolo, bensì è un’alleanza universale, nel suo sangue sparso “per le moltitudini (rabbim, polloí: cf. Is 53,11-12), cioè per tutti” (cf. Concilio Vaticano II, Ad gentes 3).

Inoltre, quell’anticipazione della sua morte in croce, nel rito del ringraziamento sul pane spezzato e nel rito del calice condiviso, è un’anticipazione anche del Regno che viene, dove la morte sarà vinta per sempre. Per questo Gesù dice: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”. Il pasto eucaristico prelude dunque al banchetto del Regno, dove Gesù, il Kýrios risorto, mangerà con noi e berrà con noi il calice della vita futura, al banchetto nuziale, dove il vino sarà nuovo, cioè altro, ultimo e definitivo, vino della stessa vita divina, la sua vita che è agápe, amore: e noi berremo quel vino nuovo vivendo in lui e con lui per sempre.

Enzo Bianchi

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