XIV Domenica del Tempo Ordinario anno B. Un Dio scandalosamente normale
Un profeta non è disprezzato che nella sua patria
“Arriva Gesù!”: la notizia deve essere approdata a Nazaret con la velocità di un fulmine o - si direbbe oggi - di un sms, rimbalzando dal mercatino dei Cananei, al lavatoio pubblico, alla scuola presso la sinagoga, passando di casa in casa, correndo di bocca in bocca. La fama di maestro sapiente e di potente guaritore, legata al suo nome, dilagava ormai da tempo per tutta la Galilea, ma in paese quelle voci erano sempre state rimarcate da sorrisi maliziosi e scrollatine di spalle tra lo scettico e il curioso: come mai in trent’anni nessuno si era accorto di che stoffa era veramente quel Jeshù, il figlio di Maria, che in paese era sempre passato per un comunissimo carpentiere, ma che in giro veniva decantato da qualche tempo come un astro di prima grandezza in fatto di intelligenza, sapienza e potenza prodigiosa?
1. Quel sabato ci deve essere stato tutto il paese pigiato nella sinagoga e nella piazzetta antistante ad ascoltare Gesù, il quale da quando se ne era andato in giro a predicare per le borgate e i villaggi vicini a Nazaret, non ci aveva rimesso più piede. Ma paradossalmente quello che doveva profilarsi come un successo garantito, si tramutò ben presto in un clamoroso disastro: “e non vi poté operare nessun prodigio”, annota amaro e asciutto l’evangelista. La traiettoria del rifiuto è accuratamente e minuziosamente ricostruita da Marco: si parte dall’ascolto (“molti ascoltavano”), si passa allo stupore (“rimanevano stupiti”), quindi alla perplessità (“da dove gli vengono queste cose?”), per finire nel disprezzo (“un profeta non è disprezzato che nella sua patria”).
Come mai i compaesani di Gesù saltano dalla meraviglia all’incredulità? L’evangelista ci aiuta a trovare la risposta: perché “si scandalizzavano di lui”. Lo scandalo è una pietra contro cui si inciampa e si cade. Dio - secondo i nazaretani - era troppo grande per abbassarsi a parlare attraverso un uomo così semplice! È lo scandalo dell’incarnazione: con Gesù sbattiamo contro l’evento sconcertante di un “Dio fatto carne”, che pensa con mente d’uomo, lavora e agisce con mani d’uomo, ama con cuore d’uomo, un Dio umano che suda, mangia e dorme come uno di noi. Come è possibile? Noi lo vorremmo sovrumano come un super-man, e ci piacerebbe essere almeno un po’ come pensiamo che sia lui; non accettiamo che lui sia come noi effettivamente siamo.
Ecco la radice dell’incredulità. Tutto sommato è facile dire: “questo Gesù è proprio un Dio!”; è molto più difficile riconoscere: “Dio è proprio questo Gesù!”. Noi pensiamo che doveva risultare abbastanza semplice per i suoi concittadini credere in lui, perché se lo vedevano davanti in carne ed ossa, mentre noi dobbiamo credere in lui senza vederlo, e non ci rendiamo conto che a far inciampare i nazaretani è stato proprio l’eccesso di familiarità con il loro concittadino diventato illustre. Appunto perché conoscevano l’umiltà delle origini di Gesù e della sua condizione, gli abitanti di Nazaret si rifiutarono di entrare nella “logica” umanamente così illogica di Dio il quale, per farsi vicino a noi, si è spogliato della sua gloria, “assumendo la condizione di schiavo, e facendosi simile agli uomini” (Fil 2,7). Così, anziché lasciarsi mettere in questione da Gesù, i suoi paesani mettono in questione lui: perché Dio si dovrebbe rivelare in “costui” e non piuttosto in un altro nostro concittadino, magari più ricco, più nobile o più potente? La conclusione, drammatica, è quella che tira s. Giovanni nel prologo al suo vangelo: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
2. Anche per tanta gente di oggi, che pure si dice cristiana, si verifica una situazione analoga a quella degli abitanti di Nazaret rispetto a Gesù: il vangelo non suscita l’impressione di qualcosa di nuovo e sconvolgente perché si crede di conoscerlo e lo si dà per scontato. Oggi tanti cristiani, quando ascoltano il vangelo, hanno spesso la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di imparaticcio e di risaputo, e così la loro reazione non è più lo stupore, ma lo sbadiglio, non è la meraviglia, ma l’assuefazione: è quello stanco e soddisfatto appagamento delle cose già sentite e risentite, sapute e risapute. Scriveva Giovanni Paolo II: “Tanti europei contemporanei pensano di sapere cos’è il cristianesimo, ma non lo conoscono realmente. Spesso addirittura gli elementi e le stesse nozioni fondamentali della fede non sono più noti. Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse: si ripetono i gesti e i segni della fede, ma ad essi non corrisponde una reale accoglienza del contenuto della fede e un’adesione alla persona di Gesù”.
La conclusione è che “c’è bisogno di un rinnovato annuncio anche per chi è battezzato”. C’è urgente bisogno di “nuova evangelizzazione”. Ma fare la nuova evangelizzazione non è fare una evangelizzazione nuova, diversa, bensì è fare nuova - cioè diversamente - l’evangelizzazione. In concreto la questione nodale è: come ridare freschezza all’annuncio a chi crede già di credere?
Innanzitutto occorre ripartire dal cuore della fede, che non è una serie di formule da accettare, o di norme da osservare o di riti da praticare, ma è una persona: Gesù Cristo, unico Signore e Salvatore di tutti. Ma perché Gesù - la sua opera, la sua persona - sia davvero una lieta notizia di salvezza, è necessario non ridurlo mai a oggetto o argomento di cui discutere, ma è indispensabile lasciarsi incontrare da lui come soggetto vivente, che “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), che mi viene incontro come la via, la verità, la stessa vita.
Inoltre occorre non appiattire mai la sconcertante paradossalità del vangelo sul buon senso corrente, altrimenti ne viene fuori un “vangelo modellato sull’uomo” (Gal 1,11). “Non si può parlare di Gesù Cristo in modo ovvio. Il compimento delle attese umane da parte del vangelo è sempre sorprendente e passa prima per il loro capovolgimento, cosa che è motivo di fede per alcuni e di scandalo per altri. Tutte le religioni dicono che l’uomo deve essere pronto a dare la vita per Dio, ma il vangelo racconta innanzitutto che il Figlio di Dio ha dato la vita per l’uomo. Il movimento è capovolto. Non sono i discepoli che hanno lavato i piedi al Signore, questo sarebbe ovvio; ma è il Signore che ha lavato i piedi ai discepoli, questo è davvero sorprendente. Il capovolgimento operato da Gesù impegna il credente a capovolgere a sua volta il modo di pensare Dio e la sua gloria” (CEI, Questa è la nostra fede).
Quanto detto fin qui non si potrebbe realizzare senza la testimonianza viva e concreta, bella e attraente di persone, famiglie e comunità cristiane che vivono “paradossalmente”, secondo criteri che sono in netta antitesi con il senso comune. È il fascino di una vita nuova che punta su quella che Giovanni Paolo II chiamava la “misura alta” della santità.
Ora il Signore Gesù ci viene incontro nel segno povero di un pezzetto di pane spezzato: la sua presenza non è meno vera e intensa di quando egli appariva solo come un semplice uomo tra gli uomini. Beati noi se sapremo riconoscerlo! Beati noi se sapremo farci riconoscere come suoi discepoli e testimoni!
Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008
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