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XIX Domenica del tempo Ordinario anno C. In alto il cuore!

Due sono gli atteggiamenti che proprio non si addicono ai discepoli: la sedentarietà e la pigrizia. Se vi è una tentazione per le nostre comunità, oggi, è l'incapacità di sentirsi in cammino. È la pretesa di aver già raggiunto la meta, senza lasciarsi scomodare dal novum ultimum che ancora ci attende

Anche voi tenetevi pronti

Agostino, in un sermone, così si rivolge alla piccola comunità affidata alle sue cure che, dopo i fervori degli inizi, iniziava a sedersi, troppo imbrigliata negli affanni terreni e spaventata dall'assedio dei barbari alle porte della città: "Tutta la vita dei veri cristiani è tenere in alto il cuore: non dei cristiani solo di nome, ma dei cristiani di fatto e in verità, tutta la vita è avere in alto il cuore. Che cosa è avere in alto il cuore? È la speranza in Dio, non in te; tu, infatti sei in basso, Dio è in alto. Se tu metti in te la speranza, il cuore è verso il basso, non verso l'alto. Perciò, quando avete udito dal sacerdote: "In alto il cuore", voi risponderete: "Lo teniamo rivolto al Signore". Procurate di rispondere una cosa vera, poiché rispondete in rapporto alle azioni di Dio. Sia così come voi dite. Non accada che la lingua risuoni, e la coscienza dica il contrario!". E il nostro cuore, oggi, come comunità cristiana tornata a essere minoranza, dov'è? In chi stiamo ponendo la nostra speranza?

1. Gesù rivolgendosi ai suoi, nella pagina evangelica che la liturgia ci dona, li saluta con l'appellativo "piccolo gregge" (v. 32). Egli è consapevole di rivolgersi a un "piccolo resto" della casa di Israele e vuole che questa consapevolezza sia condivisa anche dai suoi. Questa condizione di minoranza, tuttavia, è tutt'altro che condannata all'insignificanza. La storia di Israele è sempre stata connotata da questa condizione di minorità (basti pensare alla ricchissima letteratura profetica sul tema del "resto di Israele"). Ma tutto ciò non è di impedimento all'impegno in questo mondo. Anzi, il discorso sulla vigilanza è rivolto da Gesù particolarmente a questi "pochi".
Gesù invita i suoi, innanzitutto, a non aver paura. E la ragione della fiducia sta nel fatto che, ciò che conta, ciò che essenziale è già in possesso di questo "piccolo gregge". Il Regno di Dio, che è Gesù stesso, è stato loro donato dal Padre. In secondo luogo, perché questo dono non sia rifiutato, è necessario liberarsi da tutto ciò che impedisce di fidarsi di Dio: "Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma" (v. 33). Il terzo invito di Gesù è a saper bene orientare il proprio cuore, a saper scoprire qual è il tesoro per il quale vale la pena spendere la propria esistenza (v. 34).
Indicazioni chiare e quanto mai attuali, in un tempo nel quale sembra diffondersi pericolosamente la sindrome dell'accerchiamento e i sentimenti prevalenti sono il timore e lo scoraggiamento. Gesù vuole ripeterci l'invito a non temere, a non aver paura perché, avendo Lui, "tutto il resto ci sarà dato in aggiunta" (Mt 6,33). Gesù vuole stimolarci a non cadere nella spirale del possesso, riponendo il senso della nostra vita in quei beni che non passano, ma che sono capaci di durare alla prova del tempo. Non una comunità pavida e sulla difensiva; non una comunità preoccupata di difendere ciò che possiede e incapace di condividere il tesoro più grande che gli è stato donato; non una comunità ripiegata su di sé e che perde di vista l'orientamento, la bussola del suo cammino nella compagnia degli uomini. Questo è l'appello che la parola del vangelo torna a rivolgerci.

2. Per dare concretezza a questo invito, Gesù suggerisce ai suoi e a noi, un atteggiamento da assumere. Nell'attesa del suo ritorno è necessario "tenere i fianchi cinti" (v. 35); in altri termini ci invita ad essere in tenuta da viaggio o da lavoro.
Due sono gli atteggiamenti che proprio non si addicono ai discepoli: la sedentarietà e la pigrizia. Se vi è una tentazione per le nostre comunità, oggi, è l'incapacità di sentirsi in cammino. È la pretesa di aver già raggiunto la meta, senza lasciarsi scomodare dal novum ultimum che ancora ci attende. È la perdita di quella riserva escatologica, per la quale, pur sentendo il desiderio ardente di un compimento del Regno di Dio qui ed ora, siamo consapevoli tuttavia che rimane sempre una distanza tra ogni obiettivo raggiunto e la meta definitiva che ci sta dinnanzi.
Tenere i fianchi cinti, significa essere una comunità che, attendendo il ritorno del suo Signore, è dedita al suo lavoro; non è pigra, né accomodata, ma è sempre pronta a mettersi a servizio. "Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi" (v. 43-44), ci ricorda Gesù oggi. Sull'esempio di colui che, da padrone di casa, si cinge le vesti passando a lavare i piedi dei convitati (cfr. v. 37). Non vi è atteggiamento più eucaristico di questo, memori dei fianchi cinti del popolo di Dio, durante la cena dell'Esodo (cfr. Es 12,11), e dell'asciugatoio cinto ai fianchi di Gesù, nella Cena pasquale raccontataci da Giovanni (cfr. Gv 13,4-5).
Essere Chiesa pellegrinante nel tempo è la grande lezione del Vaticano II che ci ricorda: "Nella Chiesa noi veniamo istruiti dalla fede anche sul senso della nostra vita temporale, quando portiamo a termine il lavoro che il Padre ci ha assegnato da svolgere nel mondo con la speranza dei beni futuri, lavorando così per la nostra salvezza" (LG 48).
Ogni celebrazione eucaristica sintetizza in modo mirabile questa indole escatologica della Chiesa e, all'inizio del prefazio, nel dialogo liturgico tra colui che presiede e l'assemblea, ci ricorda l'invito di Agostino a tenere "in alto i cuori", rivolti al Signore sempre veniente. Sia una memoria costante, sia un impegno per rimanere desti.

Commento di don Adriano Caricati
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Anno C
Ave, Roma 2009

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