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XVIII Domenica del Tempo Ordinario anno A. “Voi stessi date loro da mangiare!”

Solo quando il bisogno dell’altro diventa il mio bisogno, allora può innestarsi una dinamica di condivisione capace di far scomparire il bisogno che porta alla morte.

Terminato il lungo discorso in parabole (cf. Mt 13,1-52), Gesù è avvertito del martirio di Giovanni il Battista, suo cugino e soprattutto suo maestro nei giorni del deserto. Per Gesù la morte violenta di Giovanni deve aver costituito una sofferenza e un’aporia di cui difficilmente riusciamo a immaginare la portata. Gesù ha amato Giovanni, lo ha seguito fedelmente, e quest’ultimo a sua volta ha riconosciuto in lui l’inviato di Dio, colui al quale doveva fare da precursore, presentandolo e annunciandolo a Israele (cf. Mt 3,14; 11,10).

All’udire questa triste notizia Gesù non può fare altro che ritirarsi (anechóresen: cf. Mt 4,12: reazione di Gesù all’arresto di Giovanni; 12,15; 15,21) “in un luogo deserto, in disparte”, per piangere da solo, vivere la propria sofferenza e discernere la volontà di Dio su di sé, ora che il suo maestro non è più. D’altronde, aveva appena ricevuto un rifiuto dagli abitanti di Nazaret, la sua città (cf. Mt 13,53-58), e nel suo uditorio cominciava a manifestarsi un’opposizione ben attestata. Ritirarsi per pensare diviene dunque per Gesù una necessità…

Ma le folle lo vengono a sapere e, lasciando i loro villaggi, raggiungono a piedi la sponda del lago di Galilea dove Gesù si è ritirato (tradizionalmente identificata con il villaggio di Tabga), sicché Gesù vede affollarsi quel luogo che pensava essere un eremo, vede tanta gente in attesa di ascoltarlo, tante persone desiderose di stargli vicino. Vedendo questa grande folla, Gesù è preso da un moto di viscerale compassione (verbo splanchnízomai: cf. Mt 9,36; 15,32; 20,34; il soggetto è sempre Gesù), è assalito da grande pietà, si commuove profondamente: questi poveri uomini e donne sembrano aver messo in lui la loro fiducia, dunque egli sente per loro profonda compassione.

Certo, il suo progetto di pace, riposo e distanza dalla folla è abortito, ed egli deve fare obbedienza all’inatteso, a nuove condizioni non previste: ma è anche così – e Gesù lo impara e lo sperimenta – che si fa obbedienza all’insondabile volontà di Dio. Qui la sofferenza della folla incontra la sofferenza di Gesù, ed ecco che si manifesta una com-passione, un soffrire insieme davanti a Dio; e in quella condivisione della sofferenza appare un evento di amore, un legame che è la più alta esperienza di comunione umana. Gesù si mette dunque a incontrare i malati, a curarli, a benedire i bambini, a consolare quanti gli chiedono preghiere. È così che Gesù passava tra la gente facendo il bene e spandendo attorno a sé la benedizione (cf. At 10,38).

Ma ormai scende la sera, e i discepoli con spirito previdente chiedono a Gesù di congedare quella folla, perché possa andare nei villaggi circostanti a comprarsi da mangiare. Ed ecco che Gesù li sorprende: “Voi stessi date loro da mangiare!”. I discepoli sono posti di fronte a una responsabilità inaudita: sono davanti a una grande folla affamata, ed essi hanno solo cinque pani e due pesci; cosa può mai essere questo per tanta gente? Gesù però fa sedere sull’erba quelle persone, come il Pastore che prepara il banchetto messianico sull’erba verdeggiante (cf. Sal 23,1-2.5); in tal modo fa anche un’azione profetica, per indicare ciò che nella sua comunità è davvero necessario: ritrovarsi insieme, mettersi a tavola e condividere quel poco che si ha. Questo gesto cambierà molte cose: permetterà alle folle di non lasciare Gesù per andare a comprare da mangiare, consentirà loro di essere sfamate da Gesù stesso, ricevendo da lui il cibo assolutamente necessario per la loro vita, un cibo che è più del pane di cui vive l’uomo (cf. Mt 4,4; Dt 8,3), un cibo che suggella la stipulazione dell’alleanza (cf. Is 55,3).

Gesù, stando in mezzo a loro come chi presiede un banchetto, prende quei cinque pani nelle sue mani, alza gli occhi verso Dio, pronuncia la benedizione che riconosce quel cibo quale dono che viene solo dal Signore, poi spezza i pani e li dà ai discepoli (le stesse azioni compiute nell’ultima cena: cf. Mt 26,26), affinché essi, spezzandoli ancora, li distribuiscano. Tutto è finalmente rivelato: avere poco e condividere tutto, questa è la logica che deve ispirare ogni comportamento nella comunità cristiana, sempre povera, dotata di pochi mezzi, immersa in una vita precaria. Ma il miracolo nasce dal condividere con il fratello e la sorella il poco che si ha, gesto che fa il dono all’altro perché egli possa a sua volta donare ad altri. Con questo segno Gesù ha affidato a noi un preciso impegno, quello della condivisione: questo è il miracolo dei miracoli, e l’eucaristia che permane nel cuore della chiesa resta e resterà sempre un memoriale, un magistero per i cristiani nel mondo e, più in generale, per gli uomini tutti. Resterà sempre un insegnamento semplice eppure decisivo (e così spesso disatteso!): l’unica dinamica che fa vivere è la condivisione.

A chi tocca risolvere il problema? Questa è la domanda che sorge spontanea al termine dell’episodio della cosiddetta moltiplicazione dei pani, o meglio della loro condivisione. In verità tocca a noi, mediante gesti semplici di condivisione – ovunque noi siamo, in famiglia o fuori –, perché là dove sono due o tre e si condivide il pane, là ci sarà pure la moltiplicazione del pane in forza della presenza di Gesù. Solo quando il bisogno dell’altro diventa il mio bisogno, allora può innestarsi una dinamica di condivisione capace di far scomparire il bisogno che porta alla morte.

Enzo Bianchi

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