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XXIII Domenica del Tempo Ordinario anno C. Le esigenze della sequela di Gesù

Nel chiamare discepoli e discepole dietro a sé Gesù non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade, mette in guardia. Avremmo molto da imparare da questo suo atteggiamento, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù

Pieter Bruegel il Vecchio, La grande torre di Babele, 1566, legno di quercia, 114x155 cm

Dopo il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne. Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali.

Infatti Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare con lui e l’amore famigliare, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia, una prigione. L’intenzione delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, tra le quali è possibile annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia.

Quanto alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia che trattengono e imprigionano vanno addirittura odiati!

La storia delle vocazioni cristiane conosce bene questi conflitti, questa sofferenza nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con la famiglia è più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede. Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale banalizza le relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono “tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino imboccato con tutto il cuore. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare tutti nello stesso tempo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34).

D’altronde, anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario l’amore per Dio, e quando Gesù menziona il comandamento “Onora il padre e la madre”, dal quarto posto lo retrocede all’ultimo (cf. Lc 18,20). Anche i leviti dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità di Qumran richiedeva ai suoi membri la separazione dalla famiglia per essere vigilanti in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt 33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia ha il suo posto, ma senza il potere di legare. Nello stesso tempo, amo ricordare che Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: non esclude altri amori, come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma anche questi vanno vissuti sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il Signore.

Questo regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”, cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico, egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt 13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento, senza obbedire alle emozioni del momento.

Per questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade… Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a termine i lavori?”. Seguire Gesù – e si faccia attenzione a una lettura poco intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di un momento, non l’entusiasmo, non solo l’innamoramento, ma anche un tempo di calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento, difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo, la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza!

Similmente la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lam 3,28) per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia del Signore.

Gesù aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa potrà servire? Lo si butta via!” (cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata, e allora quella resta una vita sprecata.

Diceva il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma delle persone miserabili!”.

Enzo Bianchi

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