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XXVI Domenica del tempo Ordinario anno C. Epulone vive ancora... e ci somiglia tanto

L'inferno del ricco era il vivere solo del suo Io che aveva preso il posto di Dio e lo aveva separato da tutti gli innumerevoli Lazzari della terra. E l'eternità non farà che ratificare e rendere infinita questa separazione. Non è appunto questo l'inferno, una somma infinita di infinite solitudini?

In vita tu hai ricevuto beni e Lazzaro mali; ora lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti

1. La storia la conosciamo e ci è stata appena ripetuta. C'era un uomo ricco sfondato e c'era un povero mendicante e straccione; c'erano vestiti di porpora e di bisso e c'era una coperta di piaghe; c'era un'infinita abbuffata e c'era una brama di briciole avanzate.
Ci sono ancora: per rendercene conto, proviamo a entrare nel palazzo di Epulone e a posizionare una candid camera in modo da inquadrare da vicino i personaggi della parabola. Il ricco indossa abiti regali (porpora e bisso); adopera la mollica del pane per pulirsi le mani e le dita unte di grasso - visto che non si adoperavano le posate - e poi lascia cadere le briciole sotto la tavola. Quest'uomo ricco noi lo abbiamo chiamato "epulone", ma non è un nome proprio. Epulone significa "banchettatore": è un mangione di professione; non mangia per vivere ma vive per mangiare e somiglia tanto al re Erode, di cui parla l'evangelista Marco, che racconta il sontuoso banchetto in suo onore nel giorno del compleanno, un festino finito in tragedia con la decapitazione del Battista. Di Erode parla anche l'evangelista Luca per l'ultima volta nel libro degli Atti degli apostoli (12,21-23) e lo presenta - proprio come il personaggio della nostra parabola - vestito splendidamente, malato di applausomania, uno che si gonfia a dismisura facendosi acclamare come Dio.
Mentre il ricco della parabola non ha nome, il povero si chiama Lazzaro, nome che viene da Eleazaro, e significa "Dio aiuta". Rassomiglia tanto a Gesù che - dice Paolo - da ricco che era, si fece povero (2Cor 8,9), si svuotò di sé assumendo la condizione di servo, anzi di doulos, cioè di schiavo (Fil 2,7s). Anche il tratto delle piaghe di Lazzaro richiama Gesù, perché - afferma s. Pietro citando il Profeta - "per le sue piaghe noi siamo stati guariti" (Is 53,5; 1Pt 2,25).
Dunque da una parte c'è un ricco anonimo, senza volto e senza nome, perché può chiamarsi Erode, ma anche Paperone o come si chiama uno dei vip inserito nell'elenco fortunato degli "uomini più ricchi del mondo", ma potrebbe avere anche il mio nome o il tuo o quello di qualunque altro che può godere di un benessere magari giusto, sudato e sacrosanto e che di fronte a chi non raggiunge la soglia della sopravvivenza è tentato di dire: "Ma io che c'entro? Che cosa posso farci?", e si affretta a rassicurare la propria spaventata coscienza: "Non è mica colpa mia".

2. Questa riflessione rischia di prendere le pieghe di un'invettiva contro il nostro occidente opulento e violento o contro le multinazionali o le tangentopoli di turno o contro "le orge dei bontemponi", per dirla con la voce tuonante del profeta Amos, o contro chissà quanti altri possibili bersagli del genere. Per carità, non è il caso di fraintendere: la dottrina sociale della Chiesa che prevede l'impegno per la giustizia e la solidarietà e comporta una mirata azione politica che superi sia l'individualismo, sia il collettivismo, costituisce parte integrante del magistero della Chiesa: ce lo ricordava nella Rerum Novarum Leone XIII, e quasi un secolo dopo Giovanni Paolo Il gli ha fatto eco: "L'insegnamento e la dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa" (Sollicitudo rei socialis, 41).
Ma qui forse è il caso di ridisegnare lo scenario ultimo della nostra parabola, che pone l'aldilà come orizzonte dell'aldiqua. Se è sbagliato eliminare il secondo in nome del primo - è l'alienazione religiosa, che ci è stata rimproverata dai "maestri del sospetto": Marx, Freud, Nietzsche - è ben più sbagliato il contrario: è l'alienazione materialista, che togliendo l'aldilà, leva all'aldiqua il suo senso vero e ultimo. E questa seconda pare oggi la nostra tentazione più seducente e la nostra più sottile e micidiale insidia.
A pensarci bene, questo è il madornale sbaglio e il tragico abbaglio del ricco epulone: in fondo egli non è un ateo dichiarato, non osteggia Dio e nemmeno opprime il povero: semplicemente non lo vede. E non lo vede, perché è un essere autocentrato e autosufficiente. E vive ormai semplicemente "dalla cintola in giù". E quando finalmente apre gli occhi, è troppo tardi. L'eternità era già iniziata, l'inferno è solo il prolungamento di questo abisso esistenziale di ripiegamenti morbosi, di solitudini armate e di gelidi egoismi. L'inferno del ricco era il vivere solo del suo Io che aveva preso il posto di Dio e lo aveva separato da tutti gli innumerevoli Lazzari della terra. E l'eternità non farà che ratificare e rendere infinita questa separazione. Non è appunto questo l'inferno, una somma infinita di infinite solitudini? Chi non ama, è omicida e rimane nella morte, per sempre (cfr. 1Gv 3,14).
Ecco la radice dell'ingiustizia sociale: l'egoismo, che alligna nel terreno di coltura dell'incredulità e dell'idolatria. Ed ecco la vera soluzione del problema: la fede in Cristo risorto. Poiché egli è quell'"uno che è risorto dai morti", mandato dal Padre a persuadere noi suoi fratelli increduli. Gesù Cristo è morto ed è risorto, e con lui risorto è nata la Chiesa. Ricordiamo le prime pagine della nostra storia di famiglia e ci domandiamo perché, ad esempio, la prima comunità cristiana, quella di Gerusalemme, ebbe un impatto così formidabile nel proprio ambiente? Perché non c'era tra loro "alcun bisognoso": questo sbalordiva tutti, ebrei e pagani. E perché non c'era tra loro "alcun bisognoso"? Perché erano "un cuor solo e un'anima sola" (cfr. At 4,32ss). Si realizzava quella condivisione che manca nella parabola del ricco epulone: quanti possedevano case o campi le vendevano e il ricavato veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (cfr. At 4,34s). Quando si moltiplicheranno comunità cristiane che incarnano oggi, in forme nuove, quel modello di fraternità, quando si potrà dire finalmente: Vieni e vedi!, allora il vangelo della risurrezione del Signore apparirà pienamente credibile e convincente.
La parabola odierna si conclude con l'attenzione rivolta ai cinque fratelli rimasti a casa, ignari della sventura piombata sul loro primo "grande fratello". Noi siamo, in un certo senso, quei cinque fratelli! A noi ora è mandato l'"Uno che è risorto dal morti". È mandato Gesù in persona, il quale non viene per condannare ma per salvare e per darci la forza e la gioia di essere coerenti con il suo vangelo.


Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Anno C
Ave, Roma 2009

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