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XXVII Domenica del Tempo Ordinario anno A. La gioia di lavorare nella vigna del Signore

Il padrone non si stanca di mandare i suoi servi, insiste, bussa alla porta e arriva fino al dono del Figlio. È una storia di amore e di libertà.

La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo

Nella leggenda del grande inquisitore, Dostoevskij immagina che Gesù torni sulla terra e mentre la gente semplice lo riconosce perché vede i segni che compie, il grande inquisitore lo fa rinchiudere in carcere a motivo dei disordini provocati dal suo arrivo. Di notte però va a trovarlo: “Sei proprio tu? - gli chiede - Perché sei tornato e sei venuto a disturbarci?”. La logica del potere, del dominio sulle coscienze delle persone che in cambio del pane per vivere hanno venduto la loro libertà, porta l’inquisitore a rifiutare Gesù e a pronunciare la sentenza finale: “Domani ti metterò al rogo”.

Il racconto di Dostoevskij, inserito ne I Fratelli Karamazov, ci mette in guardia dal leggere la parabola dei vignaioli omicidi come indirizzata solo ai sacerdoti e agli anziani del popolo ebraico al tempo di Gesù. La Parola risuona anche oggi ai nostri orecchi con tutta la sua forza dirompente, ma anche con tutta la sua voglia di portare frutto nella vita di ciascuno di noi.

1. La parabola è facile da interpretare nel contesto in cui Gesù la pronuncia. Si tratta di un’allegoria che descrive e interpreta la storia di Israele. Dio ha scelto Israele, lo ha chiamato, eletto, e si è preso cura di lui perché fosse il primogenito tra tutti i popoli. Ha posto la sua tenda in mezzo al popolo, gli ha donato la legge, e ha affidato la sua vigna amata a dei responsabili perché se ne prendessero cura. Poi se n’è andato perché Lui rispetta quella libertà che ha donato alla sua creatura. Un bel giorno torna a visitare la sua vigna per raccoglierne i frutti; manda i profeti ma questi vengono bastonati e uccisi. Manda altri servi ma avviene la stessa cosa.

Allora decide di mandare il proprio figlio quasi a ricordare che non è solo questione di frutti ma di riconoscere il suo diritto su quella vigna. Ma al culmine della cattiveria quei capi del popolo non solo non consegnano nessun frutto ma si considerano padroni della vigna e riconoscono in quel figlio l’unico che potrebbe rivendicare dei diritti su ciò che ormai ritengono loro proprietà. L’accanimento che mostrano verso il figlio parla da solo e rimanda in maniera chiara all’uccisione di Gesù fuori dalle mura della città. Se questa è la storia di Israele, la parabola apre al futuro: quella vigna sarà tolta e consegnata a un altro popolo che la farà fruttificare. Il riferimento a coloro che ascoltano Gesù e lo seguono e quindi alla chiesa nascente è evidente. Gesù è stato pietra d’inciampo per quei vignaioli omicidi e ora diventa la pietra angolare del nuovo edificio che è la comunità dei discepoli del Signore.

2. La prima parola che risuona davanti a noi leggendo la parabola di Matteo è “il canto d’amore di Dio per la sua vigna” che ci viene consegnato anche nella 1ª lettura (Is 5,1-7). Isaia celebra l’amore di Dio per Israele, un amore fatto di mille attenzioni e cure come quello di una madre che nutre e accompagna il proprio figlio nella vita. Vi troviamo le tante attenzioni e i doni fatti perché da quella vigna potessero venire frutti abbondanti; c’è tutta la pazienza di chi non pretende subito i frutti; c’è anche la delusione perché quella vigna alla fine produce uva selvatica. Ma il giudizio che viene pronunciato sulla vigna non ha i tratti della condanna definitiva ma di una requisitoria che spera nella conversione e nel ritorno di Israele. La fedeltà di Dio non viene meno, nonostante tutto. Il salmo 79 invoca il Signore: “Dio degli eserciti, volgiti e vedi e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato”; e poi si fa interprete di questo ritorno: “Da te più non ci allontaneremo, ci farai vivere e invocheremo il tuo nome”.

Lo stesso amore riconosciamo tra le righe del racconto evangelico: il padrone non si stanca di mandare i suoi servi, insiste, bussa alla porta e arriva fino al dono del Figlio. È una storia di amore e di libertà. La sua richiesta di poter raccogliere dei frutti non è una pretesa fuori luogo ma è pure un atto d’amore perché noi non possiamo vivere senza rimanere uniti alla vite e se dimentichiamo di essere creature si apre all’orizzonte un mondo di violenza e di odio proprio di chi ha perso ogni riferimento a qualcosa di più grande.

3. Un altro aspetto che emerge nella parabola è quel sentirsi padroni della vigna che porta a rifiutare lo stesso figlio. Una cosa simile troviamo anche nel racconto di Dostoevskij dove emerge la logica perversa di un potere che non è più al servizio del popolo ma lo tiene in mano e lo domina.

Se Isaia rimprovera Israele perché non porta frutto o produce vino scadente, nel vangelo non è solo questione di qualità dei frutti ma del nostro stesso rapporto di creature di fronte al Creatore. È una questione di sempre: sembra che Dio sia antagonista dell’uomo, e che per salvaguardare la libertà e l’autonomia dell’uomo bisogna eliminare Dio. Non è forse questo che hanno vissuto i figli della parabola del Padre misericordioso?

La sensazione di un padre oppressivo da cui bisognava liberarsi: il più giovane scappando da casa, il più vecchio cercando la libertà con gli amici, ma sempre lontano da quel padre. Non è forse questo che vive il grande inquisitore? La presenza di Gesù sembra mettere in pericolo il potere raggiunto. Non è forse questo che vive l’uomo di oggi? Dio e la Chiesa sembrano un limite per la scienza, per gli affetti, di fronte ai propri illimitati desideri. Non è forse questo che a volte vive anche il credente? Essere cristiani sembra un limite alla libertà, soprattutto quando della proposta cristiana si colgono solo i no che pronuncia.

A questa visione che percepisce come oppressiva la presenza del Padre e come limitante il ruolo di semplici vignaioli, vogliamo opporre la gioia di essere creature amate dal Creatore, di poter lavorare come umili operai della vigna del Signore, proprio come si è definito Benedetto XVI quando per la prima volta da Papa ha benedetto i fedeli riuniti in piazza San Pietro.

La proposta cristiana ci consegna la dignità di essere figli, la grazia di essere considerati amici e non servi del Signore, la consapevolezza che il mondo e la storia sono affidati alla nostra libertà e responsabilità. A noi cristiani di oggi il Signore consegna il Regno perché lo facciamo fruttificare; è un dono grande ma anche una responsabilità. A noi di non dimenticare mai di essere creature, umili operai della vigna che non è nostra, ma del Signore.

Commento di don Giampaolo Dianin

tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2007

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Per approfondimenti: www.musicasacra-bari.it