XXVIII Domenica del Tempo Ordinario anno C. Rendere gloria a Dio attraverso Gesù
Per la terza volta Luca attesta che Gesù è in cammino verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51; 13,22) e precisa che, invece di continuare la strada verso il sud, tocca la frontiera tra Galilea e Samaria per scendere nella valle del Giordano. Ma ecco un incontro inatteso: dieci lebbrosi, scarti della società, emarginati e condannati alla segregazione come impuri e maledetti da Dio e dagli uomini, vanno incontro a Gesù mentre egli sta per entrare in un villaggio. Sono uomini che, secondo la Legge, hanno il peccato scritto sulla pelle; peccato che, consumato, corrompe tutto il corpo, tutta la persona, facendone un membro rigettato dalla comunità credente.
Per noi è difficile comprendere la condizione del lebbroso in quel tempo, perché oggi abbiamo una concezione diversa della malattia e, soprattutto, le malattie della pelle ci fanno forse ribrezzo ma non ci spaventano più come segno della presenza del Maligno. Nella Scrittura c’era una legge precisa per affermare l’immunità dalla lebbra nella vita quotidiana (cf. Lv 13-14): il sacerdote, esaminata la piaga sulla pelle del malato, lo dichiarava impuro. Di conseguenza, il lebbroso doveva portare vesti strappate, tenere il capo scoperto, coprirsi con un velo la barba. Quando si muoveva doveva gridare: “Impuro! Impuro!”, e restarsene solo, abitando fuori del villaggio (cf. Lv 13,45-46). Il lebbroso, dunque, era un vivo-morto, come uno a cui il padre aveva sputato in faccia (cf. Nm 12,14)…
Nel vangelo secondo Luca abbiamo già letto un incontro tra Gesù e un lebbroso: supplicato da quest’ultimo, Gesù aveva steso la mano e toccato il suo corpo piagato, guarendolo (cf. Lc 5,12-16). Qui invece i lebbrosi sono un gruppetto e, stando lontani, senza avvicinarsi a lui, gli gridano: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. È un grido semplice e breve, che mette l’accento sulla miseria di questi uomini. È un grido ripetuto tante volte nei salmi, come invocazione al Signore Dio. Il Signore, che è misericordioso e compassionevole (cf. Es 34,6), nella sua potenza può compiere ciò che i lebbrosi possono solo desiderare ma non realizzare. Questa invocazione è come una lancia, una giaculatoria molto generale, non precisa nei contenuti, ma efficace lamento di chi soffre e chiede aiuto, consolazione.
Gesù vede questi lebbrosi, con uno sguardo che li discerne tutti e ciascuno personalmente e, mosso a compassione, dà loro un ordine che può sembrare enigmatico, anche assurdo: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”, coloro che erano incaricati dalla Legge di diagnosticare la lebbra e attestare la guarigione da essa. A prima vista, dunque, dieci lebbrosi non sono esauditi, anzi sembrerebbe che Gesù li rimandi ai sacerdoti per manifestare la propria incompetenza. Eppure essi obbediscono a Gesù e realizzano ciò che ha loro chiesto. Egli infatti non li manda via da sé ma, accogliendo la loro fiducia iniziale che li aveva spinti all’invocazione, li invita a una fiducia che può contare sulla sua parola. Ed ecco che “mentre essi andavano, furono purificati”: la loro lebbra sparisce ed essi diventano puri. Certamente Luca, nel raccontare questo evento, ricorda la guarigione dalla lebbra di Naaman il siro da parte di Eliseo: il profeta, restando lontano, gli ordina attraverso un messaggero di andare a bagnarsi nel Giordano, ed egli dopo un iniziale rifiuto acconsente e così viene guarito (cf. 2Re 5,1-14; Lc 4,27).
Qui è la fede di questi uomini, la loro adesione a Gesù che causa la guarigione. Potevano sentirsi delusi dalla parola di Gesù, il quale non li tocca, non compie nessun gesto, non pronuncia nessuna parola di guarigione, ma li invita solo a dare seguito alla loro fiducia, fino ad andare dai sacerdoti che avevano l’autorità di dichiararli guariti. La fede resta veramente un mistero e non sempre sappiamo discernerla nella sua portata, nella sua qualità, non sappiamo giudicarla né misurarla: negli altri, ma anche in noi che, secondo l’Apostolo, da discepoli cristiani dovremmo avere il coraggio di esaminarci, ponendoci la domanda: “Abbiamo la fede sì o no?” (cf. 2Cor 13,5). Sì, la fede, questa adesione al Signore Gesù Cristo che come dono è deposta in noi, ma che noi dobbiamo custodire, esercitare, rinnovare, sostenere, confermare, resta davvero un mistero. Eppure – come dichiara Gesù alla fine di questo brano – è la fede che ci salva, e la sua affermazione: “La tua fede ti ha salvato”, presente più volte nei vangeli (Lc 7,50; 17,19; 18,42; Mc 5,34 e par.; Mc 10,52), dovrebbe ricordarcelo.
Come altre narrazioni di miracoli, anche questo racconto potrebbe finire qui e invece prosegue. Tra quei dieci uomini lebbrosi guariti dalla malattia fisica, uno era samaritano, a differenza degli altri nove che erano giudei, dunque membri del popolo di Dio, santi per vocazione (cf. Lv 11,44-45; 19,2, ecc.). I samaritani erano ritenuti scismatici ed eretici, il loro culto era considerato illegittimo, erano disprezzati come gruppo. Ma proprio uno di essi, annoverato tra “quelli di fuori”, tra “i lontani”, non appena si vede guarito torna indietro e comprende che, essendo stato purificato dalla sua fede in Gesù, deve testimoniarlo, deve mostrargli gratitudine. Egli riconosce il peso, la gloria della presenza di Dio in Gesù, la grida a piena voce e si getta davanti a Gesù con la faccia a terra, come davanti al Signore. In tal modo mostra che la fede che lo aveva guarito è anche quella che lo salva.
Gesù però constata, con una serie di domande: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. Egli è deluso non perché gli altri non sono tornati a ringraziarlo, ma perché il loro cammino di fede si è arrestato alla guarigione, senza accogliere la salvezza, cioè la grazia del Signore: costoro sono guariti ma non salvati. Non sembri oziosa questa differenza: guarire nel corpo è certamente una vittoria della vita sulla malattia e sulla morte, e Dio se ne rallegra, ma questo non significa entrare nella salvezza che è guarigione, restituzione all’integrità di tutta la persona, nella sua unità di corpo, mente e spirito. Noi cristiani dovremmo essere molto attenti e vigilanti di fronte a guarigioni e miracoli: questi avvengono, a dire il vero anche in contesti non cristiani, ma non sono le guarigioni e i miracoli che danno la salvezza, che rendono i malati figli del Regno e quindi discepoli di Gesù. La guarigione fisica non significa e non coincide con la guarigione totale, quella della vita più intima, la vita spirituale che ciascuno di noi, con più o meno consapevolezza, vive.
Anche questa volta (cf. Lc 4,23-27; 7,1-10) chi accede allo spazio dei figli del Regno è uno straniero, un samaritano, uno fuori dal popolo di Dio, dal recinto ortodosso. In questo racconto Gesù demolisce molte certezze di noi cristiani asserragliati in chiese o comunità. Fuori, fuori, anche fuori c’è un operare di Cristo Signore che trova più ricezione di quanta ne abbia tra noi che ci sentiamo dentro. Dio non si lascia conoscere solo nelle istituzioni ecclesiastiche o cultuali, ma si fa conoscere soprattutto in Gesù: grazie a lui, attraverso di lui solo si rende gloria a Dio.
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