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XXX Domenica del tempo Ordinario anno C. Resi giusti dall'amore

La ragione che spinge Gesù a raccontare questa parabola è descritta all'inizio del brano: "Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri" (v. 9). Al fondo c'è una errata valutazione di sé dinnanzi a Dio, tanto da mettere in questione la propria salvezza.

Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo

"Non volendo aspettare che Dio mi esaudisca, non volendo permettere che Dio a suo tempo mostri di aver esaudito la mia preghiera, mi procuro per mio conto l'esaudimento della preghiera. Constato che ho pregato con devozione, e in questa constatazione consiste la soddisfazione procurata dall'esaudimento. La mia preghiera è esaudita. In questo ho la mia ricompensa. Visto che mi sono esaudito da solo, Dio non mi esaudirà": così, lucidamente, annota D. Bonhoeffer.
Ma cosa vuol dire, realmente, pregare? È invocare o contemplarsi? Non sembra una domanda peregrina, se solo ci si sofferma a cogliere gli atteggiamenti, così diametralmente opposti, dipinti da Gesù nella parabola odierna.

1. La ragione che spinge Gesù a raccontare questa parabola è descritta all'inizio del brano: "Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri" (v. 9). Al fondo c'è una errata valutazione di sé dinnanzi a Dio, tanto da mettere in questione la propria salvezza.
La prima tipologia, attribuita al fariseo, delinea l'atteggiamento dell'uomo zelante, pio e devoto che, pur esordendo con un ringraziamento, non riesce a fare altro che lodare se stesso per la sua bontà e rettitudine. L'elenco delle "buone azioni compiute" si infarcisce di giudizio sferzante nei confronti di tutti coloro che non possono competere con il suo ricco campionario di opere meritorie. Evidentemente Gesù, descrivendo con dovizia di particolari tutte le azioni compiute da quest'uomo, non intende condannarle in sé, come azioni disdicevoli.
Né si può condannare, nell'atteggiamento di quest'uomo, tutto il movimento farisaico, diffuso in Israele ai tempi di Gesù e che godeva di grande stima e considerazione in larghi strati del popolo. Quanto Gesù sottolinea è finalizzato a mettere in guardia da certe derive che possono riguardare tutti, nella loro pratica religiosa, farisei di ieri e di sempre.
La tipologia opposta è dipinta da Gesù attraverso la figura di un pubblicano. Egli, al contrario del primo, è consapevole del suo peccato e si presenta dinnanzi a Dio a capo chino, nell'atto dell'invocazione e della richiesta di perdono.
Il pubblicano è un peccatore pubblico, probabilmente un venduto alla potenza straniera, Roma, per conto della quale raccoglie tributi esosi, non lesinando di arrotondare il proprio stipendio a scapito dei suoi concittadini. È certamente inviso al suo popolo e considerato un traditore e uno strozzino.
Il contrasto è stridente e, per certi versi, imbarazzante anche per noi. Perché in ballo non vi è solo il confronto tra due diversi "stili di preghiera". C'è il modo di intendere il rapporto con Dio e il modo di accogliere la sua salvezza! Dunque un'alternativa che ci riguarda da vicino e nella quale ci costa una certa fatica decidere da che parte schierarci.

2. Si racconta che, nella Francia del Seicento, attraversata dal Giansenismo, ci fossero, presso il monastero di Port-Royal, delle monache "caste come angeli, superbe come demoni". Avevano ingabbiato la loro pratica religiosa in un formalismo rigido tale da aver dimenticato il cuore del cristianesimo: Dio, in Gesù suo Figlio, ci usa misericordia. Ed il Suo Amore, solo Lui, è capace di giustificarci, di "farci santi". Tutte le nostre azioni, pratiche religiose, ascesi, non sono che "risposta" grata e umile al dono di Grazia, gratuito e preveniente, di Dio che giustifica.
La loro stessa vocazione religiosa e la chiamata alla castità erano divenute motivo di orgogliosa superbia e, quindi, di auto-salvezza, più che di umile gratitudine nei confronti di Colui che le chiamava e le manteneva fedeli alla loro vocazione.
Il cuore del cristianesimo sta qui. Nella dinamica virtuosa di chiamata e risposta, nel dialogo d'amore del Padre e del Figlio, nello Spirito Santo, che si apre graziosamente, fino a inserire tutti noi, l'intera umanità, in questa relazione e dunque nella salvezza. Il pubblicano l'ha capito e può godere e gioire di questo amore! Il fariseo presume di non averne bisogno: si è già auto-assolto! Si è, forse non del tutto consapevolmente, auto-escluso!
L'eucaristia che celebriamo è simile a una grande invocazione, nella quale, all'umile confessione del nostro peccato, segue sempre la proclamazione efficace del perdono che Dio ci accorda (alla fine dell'atto penitenziale, nella preghiera silenziosa del ministro dopo la proclamazione del vangelo, nelle parole di consacrazione del calice del vino, nel Padre nostro, nella fractio panis).
Viviamo la celebrazione eucaristica con questo atteggiamento di grande umiltà e, dunque, di vero ringraziamento.


Commento di don Adriano Caricati
tratto da "Il Pane della domenica". Meditazione sui Vangeli festivi.
Ave, Roma 2009

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