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Gerusalemme, la storia, il giusto futuro. La città a tutti sacra

Se tre indizi fanno una prova, come diceva Agatha Christie, tre risoluzioni dell’Unesco che fanno? Dopo il primo di aprile e il secondo della settimana scorsa, è infatti arrivato il terzo documento dell’Unesco

A dispetto delle polemiche, delle iniziative diplomatiche e della veemente protesta della stessa Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, il risultato non è cambiato: alla forte critica per la «gestione» dei luoghi santi di Gerusalemme da parte dello Stato occupante Israele, si affianca un’evidente tentativo di attribuire alla sola fede islamica una sorta di monopolio degli stessi luoghi. Ricorre qua e là, nelle risoluzioni, la solita righetta in cui si dice che certo, va da sé, il Monte del Tempio e Gerusalemme in generale sono cari alle tre religioni. Ma il tono e la terminologia usati non lasciano spazio a troppi dubbi.


Queste risoluzioni, emesse per di più dall’agenzia dell’Onu che si occupa, o dovrebbe occuparsi, di educazione, scienza e cultura, producono una quasi incredibile somma di errori politici, storici e culturali. Dal punto di vista politico, il voto dei Paesi a maggioranza islamica del Comitato per il patrimonio mondiale (l’ultima risoluzione è stata approvata in scrutinio segreto con dieci sì, otto astenuti e due contrari) è lungi dal contribuire alla soluzione del problema: negare la realtà del legame della fede ebraica (e della fede cristiana) con i luoghi santi di Gerusalemme è un’assurdità e complica tutto, mettendo in ulteriore difficoltà i palestinesi. Perché quando si va al braccio di ferro è sempre il più forte a vincere, e non v’è dubbio che oggi il più forte sia Israele.
Palestinesi di cui peraltro gli stessi Paesi a maggioranza islamica del Comitato (in questo momento composta da Angola, Azerbaigian, Burkina Faso, Croazia, Cuba, Finlandia, Indonesia, Giamaica, Kazakistan, Kuwait, Libano, Perù, Filippine, Polonia, Portogallo, Repubblica di Corea, Tanzania, Tunisia, Turchia, Vietnam, Zimbabwe) ben poco si occupano e ancor meno si curano, preferendo usarli come strumento per polemiche tipo questa. Basta dare un’occhiata al drastico calo delle donazioni all’Autorità guidata da Abu Mazen per rendersene conto. Da un punto di vista politico e culturale, inoltre, far rimbalzare la polemica tra una pretesa di monopolio ebraico (significativa la reazione del portavoce del ministero degli Esteri di Israele: «Viva Gerusalemme ebraica!») e una di monopolio islamico, può avere solo conseguenze negative. Per cominciare, discriminare la comunità cristiana, che nel Monte del Tempio venera momenti decisivi della predicazione di Gesù, e infiammare ulteriormente gli animi delle comunità ebraica e palestinese, che di ben altro avrebbero bisogno.


L’Italia, dopo qualche esitazione, si sta smarcando da questo gioco al "tanto peggio tanto meglio" e il ministro degli Esteri Gentiloni ha rinsaldato i rapporti con gli italiani di fede ebraica e i loro rappresentanti. Andrebbe però ricordato un po’ a tutti, Unesco compresa, quel che ci racconta la storia. E cioè che giusto un secolo fa, all’epoca del trattato anglo-francese Sykes-Picot (1916) che inventò il Medio Oriente, la Palestina (quella di allora, non quella spezzettata e occupata di adesso) era stata assegnata a un’amministrazione internazionale. E che furono gli inglesi, guidati dal premier Lloyd George, che prima di darsi alla politica era stato a lungo avvocato per il movimento sionista, a imporre il proprio dominio a scapito dai patti siglati con i francesi. Convinti, gli inglesi, di poter usare gli ebrei come strumento di controllo di un’area ritenuta decisiva per l’influenza sul Mediterraneo.
Sappiamo com’è finita. La storia, piaccia o no, non si può disfare. Ma per Gerusalemme c’è ancora tempo. E per la città sacra alle tre religioni, l’idea tuttora più saggia e anche concreta resta quella sempre sostenuta dalla Santa Sede: affidarne i luoghi santi a uno statuto speciale internazionalmente riconosciuto che consenta alle tre fedi di convivere nella massima serenità possibile, assicurando loro parità di condizione giuridica e tutelando anche così il carattere assolutamente unico della città. Che Israele ha eletto a sua capitale, ma non appartiene a nessuno in esclusiva per il semplice fatto che appartiene all'umanità.

Fulvio Scaglione

© Avvenire, giovedì 27 ottobre 2016

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