Il perdono è relazione. Non può essere elettronico
La  paura scompariva solo così. Erano inutili in quel momento tutte le  invenzioni che si muovevano intorno a noi, nella culla o nella stanza.  Solo l’abbraccio cuore a cuore era capace di farci richiudere gli occhi.  Con pazienza. È questa l’immagine che voglio evocare quando vedo la  nostra vita quotidiana soggiogata da una virtualità sempre più invadente  e proposta come unica soluzione per riempire la solitudine che spesso  coincide con la ricerca di senso.
In maniera paradossale vorremmo  colmare le distanze con l’altro attraverso uno strumento mediatico,  qualunque esso sia, non rendendoci conto che così non facciamo altro che  aumentare la ferita che più di ogni altra offende qualunque uomo, e che  la Bibbia così denuncia: «Non è bene che l’uomo sia solo». Gli  strumenti tecnologici sempre più sofisticati che ci consentono di  ridurre le distanze nella comunicazione con gli altri – dal computer al  telefonino, perfezionato nella versione smartphone – non  soddisfano la domanda vera che agita il nostro cuore. E suona falsa,  anche per questo, l’idea che ci si possa addirittura confessare  attraverso un’applicazione per iPhone, come pure qualcuno ha sostenuto  (rintuzzato ieri dal direttore della Sala Stampa vaticana padre  Lombardi).
La fatica di Dio è sempre stata questa: andare in  cerca dell’uomo, prendersi cura di lui, della sua storia. Non per niente  lo chiamiamo il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il nostro è un  Dio che viene definito dall’altro. È sempre il Dio della relazione. «Non  è un Dio solo, ma un solo Dio», diceva don Tonino Bello. È un Dio,  quello rivelato da Gesù, che non ama surrogati dell’uomo, siano essi  mascherati da sacrifici e incenso, ma va a cercare la pecora smarrita.  Finché non la trova. Poi se la mette in spalla, e torna insieme con lei,  pieno di gioia.
La Chiesa gioca proprio in questo campo della  fragilità e della debolezza il suo ruolo di maestra in umanità, andando  controcorrente e manifestando in ogni situazione la via alternativa  dell’incontro personale. In un mondo dove si vuole che l’inizio della  vita venga al di fuori di questo "a tu per tu", e la morte è sempre più  isolata e regolata nel rapporto tra una macchina e l’individuo, anche  tutti i limiti e le fragilità umane rischiano la presunzione di essere  risolti virtualmente. Nel sacramento della riconciliazione la Chiesa si  mostra come colei che cerca, attende, abbraccia, bacia, fa festa. Perché  quello che le sta a cuore è che proprio nel momento della maggiore  lontananza dalla pace e dalla felicità l’uomo ritrovi il perdono  anzitutto come relazione.
La Chiesa vuole continuare a essere per  noi madre, e ci invita instancabilmente a passare dall’io al noi,  dall’individualismo all’accoglienza. Come potrebbe fare tutto questo  attraverso un computer? Essere guariti è sentirsi amati per quello che  siamo: non è frutto di meriti acquisiti, ma il dono gratuito di chi ti  ama da sempre. L’amore lo percepiamo nella relazione: come i nostri  genitori in quei lontani pianti notturni. Nessuno, neppure i mezzi di  comunicazione, può essere delegato a sostituire questa relazione con  l’altro.
Quante volte ho vissuto la confessione come  quell’incontro tra le due mani del capolavoro di Michelangelo nella  Cappella Sistina. Una nuova creazione. Mentre ricevo – od offro – il  perdono capisco che c’è dell’altro in quel «ti assolvo dai tuoi  peccati». C’è tutta la vita nuova di una Chiesa che si prende cura di  me, o di chi mi sta di fronte. Che mi spinge a essere anch’io capace di  rischiare e assumermi una nuova responsabilità. Nella vita vera. Ogni  giorno. Senza nascondermi dietro un iPhone.
            