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La carestia: emergenza che chiama

Undici milioni di vite a rischio nel Corno d’Africa: un’ecatombe così vasta e talmente lontana da noi che rischia di non interrogarci, di lasciarci inattivi perché "impotenti". Ma il cristiano può chiamarsi fuori? C’è qualcosa che "non lo riguarda"?

carestia.jpg«La fede cristiana è fondata sul fatto che il Figlio di Dio s’è fatto figlio dell’uomo – risponde il teologo monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana e preside dell’Istituto universitario "Sophia" dei Focolari –. Se Dio stesso, in Gesù, ha condiviso la condizione umana in tutto eccetto il peccato, la via che il cristiano deve seguire non può essere diversa. Del resto non è Gesù stesso, in quella straordinaria pagina che descrive il "giudizio finale", a dire che qualunque cosa si sia fatta o non si sia fatta, nei confronti di chi è in necessità, è a Lui che è stata o non è stata fatta?».
Se dunque il cristiano non può chiamarsi fuori, che cosa può fare di fronte a eventi del genere?
Innanzitutto, occorre sentire nel proprio cuore la piaga che brucia nella carne dell’altro, chiunque egli sia. È questa la com-passione, e cioè la capacità di patire con l’altro, che Gesù testimonia. Se il nostro cuore non la sente, vuol dire che la nostra fede è - direbbe il Papa - addormentata. Ma la compassione non è un pio sentimento: è – come scriveva Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis – quella passione dell’anima da cui scaturisce la decisione di prendersi cura concretamente e con efficacia di chi è nella prova. Ciascuno secondo il proprio ruolo e le proprie possibilità. Chi ha responsabilità a livello politico, ad esempio, non può restare con le mani in mano. Ma anche tutti gli altri devono fare la propria parte. Senza dimenticare che la fantasia dello Spirito Santo non è avara di impulsi e suggestioni che, se accolti con cuore aperto, pronto e intelligente, possono spingere a incisive strategie e azioni di sapore profetico.
Oltre al "fare", qual è il peso concreto della preghiera? Al non credente sembrerà una pratica inutile, ma sappiamo che non è così.
Dio, che è Padre, non è estraneo o impassibile rispetto alle faccende umane. Soprattutto quando c’è di mezzo la sofferenza. In ogni persona che soffre, Egli riconosce il Figlio suo. D’altra parte, noi sperimentiamo il più delle volte la sproporzione delle sfide cui dobbiamo far fronte e addirittura talvolta – come accennato all’inizio – la nostra impotenza. Ciò non significa arrendersi al fatalismo o ripiegare nel quietismo: ma appunto affidarsi, nella speranza che scaturisce dalla fede, alla compassione e all’onnipotenza d’amore di Dio.
Come si pone il credente di fronte a ingiustizie colossali come un milione di bambini innocenti a rischio di morte? Come le legge e giustifica?
Non le giustifica in nessun modo, ma le legge – col cuore contrito e ferito dalla compassione – nella luce del volto di Gesù che sulla croce giunge persino a gridare: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Lui, innocente, vittima della durezza del cuore e dell’ingiustizia! C’è forse una spiegazione? Solo l’amore e la fede con cui Gesù lo vive, pur nel buio della mente e dell’anima. Anche le catastrofi naturali non hanno spiegazione, se non nella provvisorietà del nostro mondo in divenire, che è esso pure – direbbe l’apostolo Paolo – sottoposto alla caducità e anela ai cieli nuovi e alla terra nuova.
Fare un’offerta, piccola o grande, è certamente indispensabile. Ma basta? O oltre all’elargire siamo chiamati anche ad altro, in quanto cristiani?
Oggi non bastano l’elemosina e neppure più la buona volontà. Lo diceva Paolo VI nella Populorum progressio e lo ribadisce Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Occorre lavorare alla trasformazione dei pensieri e delle azioni che regolano la vita economica e politica. Occorre cioè introdurre la dinamica della gratuità e della solidarietà dentro l’economia, e quella della responsabilità gli uni degli altri in politica.
Infine, tutto ciò che abbiamo detto finora dei cristiani riguarda anche i non credenti? Ovvero: è antropologicamente valido per tutti in quanto esseri umani, o al cristiano è richiesto qualcosa di diverso?
Conosciamo tutti il detto della sapienza classica: «Sono uomo e niente di ciò che è umano mi è dunque estraneo». La pagina del "giudizio finale" prima richiamata sottolinea che il più delle volte, forse, ci si è presi cura dell’altro senza riconoscervi la presenza di Gesù. Ma è a questo che il cuore di ogni uomo è chiamato: amare l’altro, in Dio, come se stesso. Il cristiano, non con orgoglio, ma con umile gratitudine e con responsabilità a caro prezzo, dovrebbe farlo perché sa che «siamo membra gli uni degli altri», in Gesù, e che «nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i propri amici».

IL FILOSOFO MAFFETTONE: «LA FAME E' INGIUSTIZIA, MALE MORALE. NOI PIU' FORTUNATI ABBIAMO DEI DOVERI»
Ogni anno 20 milioni di persone muoiono per fame nelle regioni povere del mondo, mentre da noi si fa la dieta. È una tragedia peggiore dell’Olocausto, perché si ripete ogni anno e lo sappiamo da prima». Lampante e impietosa la disamina del filosofo Sebastiano Maffettone, preside di Scienze Politiche alla Luiss, che parla di «ingiustizia enorme e scandalosa».
Eppure, quasi sempre affoga nel mare dell’indifferenza, come riguardasse solo l’alta politica.
"Noi" non possiamo chiamarci fuori. Essere nati qui invece che lì è del tutto arbitrario. Non abbiamo alcun diritto morale a essere considerati diversi da coloro che soffrono. Naturalmente, se per la morale non ci sono dubbi, lo stesso non si può dire per la politica: in politica, per intervenire ci vuole il consenso popolare. Quindi, ognuno di noi è chiamato a fare qualcosa individualmente, mentre collettivamente non si può pretendere che i governi facciano lo stesso. Perché ciò avvenga, però, possiamo e dobbiamo mobilitarci, affinché i partiti includano le questioni di giustizia distributiva globale nella loro agenda.
Come, in concreto, ricostruire allora una responsabilità individuale?
La prima cosa da fare è considerare l’ingiustizia come un male morale e una priorità assoluta. Quando poi si passa all’azione, la faccenda è più complicata. Non possiamo partire tutti per l’Africa con l’intenzione pur lodevole di aiutare i bisognosi, bisogna affidarsi a intermediari e controllarne l’opera. Esistono agenzie sia laiche sia che religiose capaci di prestare aiuto in maniera efficiente e continuativa. Come ho già detto, è innanzitutto una responsabilità morale dei singoli, ma in democrazia governi e istituzioni rispondono ai singoli, e quindi tutti noi dobbiamo premere su cittadini, governi e istituzioni per ottenere che gli aiuti siano legittimati democraticamente. Per esempio, affinché i dazi sui prodotti africani vengano rimossi per consentire ai loro Paesi esportazioni più facili.
Se il credente "legge" e condivide le sciagure altrui alla luce della Croce, il laico che sentimenti ha?
Penso che dovremmo tutti essere mossi da un forte senso di colpa morale, perché spesso siamo troppo pigri per agire.
Ma al di là dei sensi di colpa, c’è un modo per far fronte alla "sventura" senza alibi?
I modi per reagire all’ingiustizia sono diversi. Io vi includo soprattutto cercare di capire, non dimenticare mai, dedicare parte di sé, non ritenersi estranei, contribuire materialmente, sentirsi un noi inclusivo, soffrire per chi soffre, agire politicamente in questa direzione...
Ma – a livello antropologico – qual è la spinta che "impegna" un non credente a farsi carico del suo prossimo? Ovvero: dove non c’è il "dovere" dettato dalla fede e dal Vangelo, cos’è (se c’è) che ci "impone" la solidarietà?
Non c’è bisogno di fede religiosa per rendersi conto dell’ingiustizia clamorosa in cui viviamo, basta un sano senso morale. La fede, da questo punto di vista, è un’interpretazione del senso morale comune a tutti gli umani. Il fatto di essere cattolico, buddhista, ebreo, islamico, laico e così via non è condizione necessaria per capire che è assurdo che 20 milioni di persone muoiano di fame e malattie curabili, mentre noi ci preoccupiamo del superfluo.
Eppure, nelle lande più misere del mondo incontriamo quasi esclusivamente "missionari" mossi dalla fede in Dio: non solo preti o suore, ma ad esempio medici e volontari laici a vario titolo. Lei, come non credente, come si spiega questa "marcia in più"?
Da giovane ho vissuto quasi due anni in Africa centrale. Ho visto tanti sfruttare la povertà e tanti altri invece aiutare. Tra questi ultimi ci sono individui e gruppi, come per esempio Oxfam, che non sono mossi da presupposti religiosi. E naturalmente tanti altri che invece lo sono. Tengo molto a sottolineare una cosa: non sono cattolico praticante, ma sono italiano ed educato in una famiglia cattolica, e so quanto la Chiesa sia importante nella vita dei singoli e delle istituzioni. Proprio per questo ho salutato con un profondo sollievo gli interventi della Chiesa stessa sui problemi di cui stiamo parlando: troppe volte, a mio avviso, si occupa della difesa della vita di pochi (ad esempio nel dibattito sul fine vita) anziché dell’ingiustizia che riguarda milioni di persone.
Una battaglia non meno fondamentale, mi pare. Di pochi o di molti, sempre di vita si tratta.
Ma penso che la sua difesa strenua non sia una prerogativa religiosa: qualsiasi persona dotata di senso morale sa che la vita è il bene più importante e prezioso che dobbiamo tutalare.

Lucia Bellaspiga
 
© Avvenire, 27 luglio 2011
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