La morte di un martire cristiano
Qualche volta il nostro cristianesimo sembra malato di vecchiaia. Senza speranza. David Maria Turoldo, poeta e grande cristiano, così pregava: «Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto e fa’ che tutto il popolo sia liberato dalla senilità dello spirito. Ridonaci la capacità di piangere e di gioire». La capacità di piangere e di gioire libera dalla senilità dello spirito che è fissazione con i propri problemi, vittimismo, rassegnazione. Fa piangere – così almeno io ho sentito – l’assassinio del ministro pakistano delle minoranze, Shahbaz Bhatti.
Un cattolico che lottava per i cristiani del suo Paese, per liberarli dalla marginalità e dalla minaccia della legge sulla blasfemia (per cui si può essere facilmente accusati di crimine contro l’islam).
Ho conosciuto Bhatti e avrei dovuto incontrarlo nei giorni scorsi a Islamabad. Sono legato ai cristiani pakistani per la presenza di Comunità di Sant’Egidio in quel Paese. Con Bhatti si condivideva il lavoro per i poveri, musulmani o cristiani. Alla notizia della sua uccisione mi sono posto la domanda: è impossibile fare qualcosa in questo Paese, non solo islamico, ma feudale e oppressivo?
Spesso ci facciamo questa domanda con un misto di rabbia e rassegnazione. Rabbia per il mondo islamico. Rassegnazione per qualcosa che non si può cambiare. Eppure Bhatti era lontano da questi sentimenti, nonostante le minacce e il senso di insicurezza che attraversava le sue giornate. Parlava di una possibile morte. Ma concludeva: «Voglio vivere per Cristo e per lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese». Chi accostava il ministro lo trovava sereno, abitato da grande speranza. Aveva tutti i motivi per sentirsi vittima di una situazione impossibile. Di origine povera, nel crogiuolo della sofferenza e della discriminazione, aveva maturato una forza di speranza.
È una grande lezione per noi cristiani “comodi”, talvolta dominati da uno spirito di senilità: quella di un uomo di fede, che rischia la vita, ma non rinunzia alla speranza di cambiare il suo Paese. Con l’amore verso i poveri di ogni religione – aveva detto – «abbiamo costruito ponti di solidarietà: ciò produrrà un cambiamento positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno in nome della religione, ma si ameranno le une con le altre...». Un’illusione? No, una speranza per cui vale la pena vivere e morire. Sulla fede cristiana di Bhatti è germinato un sogno di pace. Tante volte, invece, un mondo malato di senilità spreca molte risorse e tanta speranza.
A proposito di Bhatti, mi sono tornate in mente le parole di Karol Wojtyla su di un martire del Novecento: «Morì un uomo, ma l’umanità si salvò!». È morto Bhatti, che ha mostrato una via al suo Paese per salvarsi dal totalitarismo disumanizzante. Il suo martirio parla anche a noi cristiani “comodi”, mostrando la forza e la bellezza di vivere per gli altri con la speranza che non marcisce.