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Mostra. Vincenzo de' Paoli, la carità diventa arte

A Piacenza la prima grande ricognizione sull’iconografia italiana del santo francese nelle opere tra ’700 e ’900

Un anziano dal viso dolce e buono, il naso un po’ schiacciato, una barbetta bianca, il sorriso negli occhi. Nel variare delle situazioni e delle epoche, gli artisti che hanno dipinto il volto di san Vincenzo de’ Paoli ne hanno soprattutto trasmesso lo spirito. I colori della carità. San Vincenzo de’ Paoli nei capolavori dell’arte italiana tra ’700 e ’900 inaugurata ieri a Piacenza (fino al 25 febbraio) nella galleria del Collegio Alberoni - fondato nel 1751 dal cardinale per l’istruzione dei sacerdoti e da allora affidato ai padri della Congregazione della Missione - è una mostra importante. Innanzitutto è, grazie alla perizia del curatore Angelo Loda, la prima grande ricognizione sull’iconografia italiana di san Vincenzo de’ Paoli, in cui i capolavori - numerosi, per il Settecento dal classicismo romano di Sebastiano Conca e Aureliano Milani, al torinese francesizzante Vittorio Amedeo Rapous allo scabro e visionario Giuseppe Antonio Petrini, quindi dall’Ottocento lombardo di Mauro Conconi a quello emiliano di Adeodato Malatesta - si mescolano a tele che raccontano le tante storie dell’arte in Italia. In secondo luogo è un’occasione preziosa per vedere opere normalmente inaccessibili perché in conventi di clausura o in istituti religiosi. Terzo ma non ultimo, la mostra ridà valore alla funzione nobilmente pedagogica dell’arte, consentendo di scoprire la ricchezza della figura di san Vincenzo de’ Paoli, della sua azione davvero rivoluzionaria nella Francia del XVII secolo e della presenza vincenziana in Italia.

«Nel 2017 ricorrono i 400 anni dalla nascita del carisma vincenziano » racconta padre Erminio Antonello, superiore del Collegio Alberoni. Vincenzo, di umili origini (nato a Pouy nel 1581, muore a Parigi nel 1660), aveva percorso i gradi del sacerdozio soprattutto come mezzo di ascesa sociale, riuscendo a entrare nel cerchio della corte parigina. È grazie al cardinale de Bérulle, tra le principali figure della spiritualità francese del Seicento, che «matura in lui la coscienza della sua identità sacerdotale - spiega Antonello -. La sua conversione non avviene attraverso un evento eccezionale, come per altri santi, ma attraverso la scoperta dei poveri. Vincenzo, precettore della famiglia de Gondi, da cui provenivano le massime autorità ecclesiastiche parigine, scopre che i contadini francesi vivevano nell’estrema indigenza a causa della fame, della peste e della guerra ». Accanto alla povertà materiale, la povertà spirituale. Nella “figlia primogenita della Chiesa” i contadini non conoscono davvero il Vangelo. Vincenzo porta allora la carità della Parola e del fare. «Charitas Christi urget nos» è il motto paolino che punteggia i dipinti: «l’amore di Cristo ci spinge». Nel fatidico 1617 Vincenzo vive due eventi capitali: la confessione di un morente, che gli fa comprendere la profonda forza del sacramento, e una esortazione pubblica alla carità verso una famiglia in grave indigenza così efficace nei risultati da fargli capire, però, la necessità di un’opera strutturale, non legata all’emotività del momento. Nel 1618 conosce Francesco di Sales, che gli affida presto la cura spirituale della Visitandine. È un incontro che «gli permette - spiega ancora Antonello - di fare sintesi interiore di tutti i fatti della sua vita e di apprendere uno stile personale nel- l’esercizio della carità, fatto di semplicità, pietà, mitezza e cordialità ». È così che negli anni Vincenzo de’ Paoli fonda i Missionari della Carità (noti anche come Lazzaristi), le Dame e poi le Figlie della Carità. Queste ultime, ragazze di umili origini, diventano uno dei primissimi ordini femminili a operare al di fuori dei conventi di clausura, direttamente nella carne viva della società. San Vincenzo di fatto pone le basi pratiche e ideali della moderna assistenza solidale: nell’oggetto - il soccorso alle famiglie affamate e ai mendicanti, l’accoglienza dei bambini abbandonati, l’opera tra i carcerati - e nel metodo: raccolta fondi, interventi mirati e duraturi nel tempo, comunicazione pubblica dei bisogni, coordinamento tra le attività di aiuto. Tutto questo è raccontato e interpretato dai dipinti in mostra, frutto di due anni di ricerca (che convoglieranno anche in un ricco catalogo). Nel Settecento san Vincenzo è il «predicatore alle genti, povere e ricche al contempo» spiega Loda. È Aureliano Milani a realizzare il primo grande capolavoro italiano sul santo: la pala d’altare realizzata, dopo la beatificazione del 1729, per la distrutta chiesa vincenziana di Montecitorio, a Roma. San Vincenzo predica nel mezzo dell’agro romano, tenendo alto il crocifisso e indicandolo con l’altra mano. Milani traccia un modello dell’iconografia vincenziana in Italia: la predicazione all’aperto (quando invece nella tradizione francese avviene dal pulpito), il crocifisso tra le mani. Altri filoni iconografici lo vedono insieme a san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal, la fondatrice della Visitandine o nell’atto di inviare un gruppo di sacerdoti mentre sullo sfondo alcune Figlie della Carità praticano cure mediche a una donna. Non manca il genere, tipico dell’epoca barocca, del santo in gloria.

Nell’Ottocento l’iconografia di san Vincenzo muta. Non più il predicatore, ma il prototipo del santo sociale. È anche frutto della storia. La Rivoluzione francese è un punto di non ritorno per il mondo religioso europeo, una vera e propria tabula rasa. La Chiesa si ricostruisce attorno alla dimensione sociale, la sola forse che l’Il-luminismo era disposta a riconoscerle: «Vincenzo de’ Paoli è il mio santo» disse Voltaire, che vi individuava il modello del filantropo. Ed ecco allora «prevalere l’identificazione di san Vincenzo - spiega Loda - come apostolo della carità e dell’assistenza ai poveri e ai malati che contraddistingue tutto il suo percorso di vita e di fede». È la lettura di san Vincenzo favorita anche dal Novecento. È quella - vera curiosità della mostra rappresentata da Aurelio Galleppini, ossia Galep, l’inventore di Tex, che nel 1947 ospite a Cagliari della Figlie della Carità realizzò per loro diversi affreschi tra cui uno con San Vincenzo, santa Luisa de Marillac e i trovatelli di Parigi, in cui il santo assomiglia curiosamente a Kit Carson. È soprattutto quella di Monsieur Vincent, straordinario film di Maurice Cloche con Pierre Fresnay, premiato con l’Oscar nel 1949 e che sarà proiettato, restaurato, in uno dei molti eventi collaterali della mostra (info collegioalberoni.it). È quella, dopotutto, che evocano la talare, il mantello, il cappello e gli zoccoli consunti di san Vincenzo, che chiudono la mostra. Come dice bene padre Erminio Antonello, «dopo i colori, gli abiti della carità».

Alessandro Beltrami

© Avvenire, domenica 17 dicembre 2017

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