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Non la fama ma la croce

Un santo non è un divo. Un santo non somiglia a un uomo di successo. I cri­stiani lo sanno. E sanno che c’è una bella differenza tra il successo nelle cose del mondo, e quello nelle cose del cielo. Che poi sono quelle della terra ma vissute, per così dire, in modo centuplicato, in modo più vero. In modo senza fine. Perché è scrit­to così nel Vangelo. Ed è scritto nella vita di tutti i santi, quelli noti e quelli meno noti.

C_2_fotogallery_1002891__ImageGallery__imageGalleryItem_27_image.jpgGente che ha vissuto nel mondo. Come se non finisse tutto nel mondo. Gente che ha sperimentato e fatto vedere agli altri l’infi­nito nelle cose finite. Il cielo dentro la ter­ra, il centuplo quaggiù, che è una ricchez­za di senso. Una ricchezza incalcolabile.

La beatificazione, domani, di Giovanni Paolo II non è l’apoteosi di un divo. Anche se certe apparenze, anche se certe parole enfatiche – usate spesso da chi non sa co­s’è il cristianesimo – vorrebbero farlo cre­dere. Come se fosse un divo dei nostri tem­pi. Che si può esaltare (o criticare) come un divo, secondo le categorie dell’uomo di successo a partire dai canoni, dalle idee che oggi prevalgono per decretare il suc­cesso di un uomo. Il divo, come insegna­no l’arte e la letteratura dell’u­manesimo e del rinascimento che riprendevano ideali pre-cri­stiani o anticristiani, è l’uomo che cerca compimento nel so­migliare a un dio. Allargando il suo potere, provando a deter­minare la propria fortuna in tut­to e per tutto. Il divo è chi sem­bra possedere il proprio destino. L’uomo che in fondo non ha bi­sogno di Dio, poiché basta a se stesso: la fama acquistata con le imprese che l’epoca ritiene degne di gloria e il potere che ne consegue sono la sua realiz­zazione.

Il santo è tutta un’altra faccen­da. Una faccenda di cielo mi­schiato alla terra. Spesso di nes­suna riuscita, nessuna fama. So­no santi uomini oscurissimi, di nessuna notorietà pubblica. O, come nel caso di Giovanni Pao­lo II, è una faccenda che riguar­da ciò che è noto e ciò che è se­greto nella vita di un uomo. Ciò che è stato visibile alle folle e ciò che è stato visibile a pochi te­stimoni o solo a Dio. Non c’en­tra la fama. C’entra la croce. Non si fonda sul successo, ma sul sacrificio di sé. E sull’amore a Cristo. Tutte cose – specie l’ul­tima – che non sono necessarie, anzi non sono proprio richieste, per essere divi dei nostri giorni. I divi odierni sono spesso am­mantati di aura morale. Oggi va di moda l’uomo 'buono' o me­glio 'corretto'. E in un certo senso è un bene, anche se spes­so si tratta di una morale ta­gliata su misura sui valori esaltati dai me­dia e delle classi al potere. E i media e le classi al potere sono disposti forse ad ac­cettare Giovanni Paolo II come un divo, ma non del tutto. Perché non sta del tut­to dentro la immagine di divo comune. Ha certe cose che non tornano. Che sono poi le cose che lo fanno santo. Le classi dominanti – ma diciamolo: la mentalità che domina anche in noi – è disposta a e­saltarlo come divo, ma parzialmente. E di più: vorrebbero che la santità coincides­se con il loro rilascio di patente di divo. Che il divo coincidesse con il santo. E dun­que che se qualcosa non funziona nel­l’immagine del divo, allora si deve mette­re in discussione anche la realtà del san­to. Ma i cristiani lo sanno: non sono per nulla la stessa cosa.

A Roma ci recheremo in tanti a festeggiare un uomo speciale, a pregarlo. Un uomo vi­vo e operante nella santità dei secoli dei se­coli. Non a esaltare un divo morto. Guarde­remo un uomo santo come a un esempio per le nostre pene e ferite. E per il nostro a­more a Cristo. Non invidieremo acidamen­te la sua fuggente fortuna – come accade coi divi – ma gli affideremo dolcemente la nostra povera esistenza, deponendola ai piedi della sua paternità senza fine.

Davide Rondoni

© Avvenire, 30 aprile 2011

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