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Pagode dorate, dolcezza e inferno dei Rohingya: il Papa in Myanmar

Quello nell'ex Birmania (e, poi, in Bangladesh) è il ventunesimo viaggio apostolico di Jorge Mario Bergoglio, il terzo in Estremo Oriente. In sette giorni il Santo Padre pronuncia undici tra discorsi ufficiali e omelie. Tra chi l'aspetta, anche i sacerdoti e i laici delle Missioni don Bosco: storie di fede, carità e dialogo

3b54358ffd3dce34f267c5e3d5cf9cb7_2293155.jpgPadre Thomas Htang Shan Mong dirige l'ufficio Giustizia e pace della Conferenza episcopale del Myanmar. Aggiorna la dolente contabilità che narra l’esodo dei Rohingya, la minoranza musulmana in fuga dall’ex Birmania («Gli ultimi dati ufficiali dell’Onu, che risalgono al 12 novembre, raccontano la fuga in Bangladesh di 615.500 persone, senza contare le migliaia di sfollati da noi, all’interno del Paese; tutti necessitano di aiuto») e scuote la testa: «Da circa 70 anni viviamo tra guerre e tensioni». Il giovane Zarni Saya, della diocesi birmana di Parthein dà voce alla speranza:«E' la prima volta che ospitiamo un Papa. Ci auguriamo che la sua visita serva al dialogo e alla riconciliazione».

Dal 27 al 30 novembre papa Francesco va in Myanmar, un Paese che conta oltre 51 milioni di abitanti. Secondo il Governo l’87,9% è buddista. I cristiani sono il 6,2%, i musulmani il 4,3% , gli indù lo 0,5%, gli animisti delle zone tribali lo 0,8%. Sik, confuciani, bahai, zoroastriani e altre minoranze che non appartengono a nessuna religione costituiscono lo 0,3%. I cattolici sono circa 700.000, divisi in 16 diocesi. Sono attivi in diversi settori. A partire dalla formazione.

Così i Salesiani, per esempio. “Il don Bosco del Myanmar”, padre Fortunato Giacomin, era nato a Fonzaso (un paesino in provincia di Belluno), ma, fin da ragazzo, la vocazione l’aveva portato a scegliere l’impegno missionario salesiano e a prendere la via dell’Estremo Oriente. Quando, dal 1964, in Myanmar un feroce regime militare nazionalizzò gli istituti religiosi e cacciò tutti i missionari stranieri, lui fu l’unico a restare, perché aveva un permesso di soggiorno come insegnante. Per decenni, nel silenzio, ha tenuto vivo il carisma del fondatore. Oggi di quell’impegno si vedono i frutti. A Mandalay (città di un milione i abitanti, nel cuore del Paese) padre Peter Myo Khin, insieme a tre confratelli (tutti birmani) fa esattamente ciò che don Bosco faceva nella Torino di metà ‘800. Le sue giornate sono spese per dare sollievo agli ultimi, a cominciare dai malati di tumore e di Hiv, che grazie a lui ricevono biancheria pulita e kit per l’igiene personale. Frequenti sono anche le visite in carcere. Di sera, padre Peter e gli altri salesiani vanno lungo il fiume a cercare i ragazzi distrada: stanno con loro, li trattano come amici e li accolgono in una casa famiglia.

L’esempio di don Giacomin ha generato molti figli spirituali. Uno di loro è l’arcivescovo di Yangon e primate della Chiesa birmana, il cardinale Charles Maung Bo, entrato tra i Salesiani su invito del sacerdote veneto. La Chiesa da lui guidata si prepara a questo storico incontro. Il Myanmar attende il Papa con la sua bellezza, la sua ricchezza spirituale, ma anche con i suoi laceranti contrasti. Molto si è parlato, negli ultimi mesi, della tragedia dei Rohingya, minoranza etnica di religione islamica, protagonista di scontri con l’esercito birmano, tra violenze e migliaia di persone costrette alla fuga.

ansa_myanmar_2293168.jpgDiverse voci si sono levate a difesa dei Rohingya. È stata anche chiamata in causa la storica leader del movimento pacifista e premio Nobel per la pace 1991 Aung San Suu Kyi (oggi ministro degli Esteri), il cui silenzio è stato letto da alcuni come un colpevole disinteresse. Ma questa non è che una delle tante ferite con cui il Paese deve fare i conti. Lo ha ricordato recentemente lo stesso cardinal Bo. «Come Nazione dobbiamo rivolgere l’attenzione ad alcune grandi sfide. Tra queste, la povertà che affligge la maggioranza dei cittadini, il grido di dolore di milioni di giovani trattati come schiavi nei Paesi vicini, la mancanza di lavoro». Negli ultimi tempi il Myanmar, pur saldamente in mano ai militari, ha compiuto importanti passi verso l’apertura. Le libertà religiose sono aumentate, ma per i cristiani la vita resta difficile. Ancora oggi, per esempio, ai missionari non è permesso di aprire scuole. Ma la congregazione di don Bosco ha comunque trovato il modo di stare accanto ai giovani.

Nella città di Anisakan si trova un collegio che per tutto l’anno scolastico  accoglie 130 ragazzi cattolici tra gli 11 e i 16 anni (molti dei quali provenienti da famiglie povere), proponendo anche attività sportive, musicali e teatrali. Questo luogo è un seme di speranza per la Chiesa birmana. «Tra i ragazzi più grandi c’è chi bussa alla porta del direttore e racconta il desiderio di iniziare un cammino di vita religiosa facendosi salesiano» racconta il presidente delle Missioni don Bosco, Giampietro Pettenon, fino a qualche giorno fa in Myanmar.

Lorenzo Montanaro

© www.famigliacristiana.it, lunedì 27 novembre 2017

Tutte le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia Ansa.

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