Politica: perché ha bisogno della religione
 L’evento  o gli eventi che portano alla luce simili tendenze inquietano e, quasi  sempre, accrescono la paura di individui e collettività per il futuro  che li attende. Così è accaduto anche per la lunga tendenza «moderna»,  sotto la cui spinta la «laicità» dello spazio pubblico sembrava dover  imporre l’insignificanza – o addirittura l’ostracismo – di ogni  riferimento al sacro e al senso religioso. L’11 settembre ci ha colti di  sorpresa. E proprio l’evento dell’11 settembre, nel momento stesso in  cui ha mostrato la vulnerabilità dei sistemi di convivenza  dell’Occidente, ha costretto a prendere atto della lunga tendenza che  aveva distorto – e, nella noncuranza dei più, continuava a svilire – il  rapporto tra religione e politica. Nello splendido romanzo La sfera e la croce  del 1909, Gilbert Keith Chesterton mette in scena l’eterna lotta tra  fede e ateismo, incarnandola in due uomini: Turnbull, editore del  giornale L’Ateo  ed emblema del razionalismo; Mac Jan, ruvido scozzese legato alle  tradizioni e incline al misticismo. Siamo nei primi anni del XX secolo.  Per l’Europa, per la sua cultura prevalente, per le sue classi dirigenti  e per i ceti borghesi, la stagione della Belle Époque sembra dover e  poter proseguire senza fine, sospinta dal vento dell’irresistibile  progresso.
L’evento  o gli eventi che portano alla luce simili tendenze inquietano e, quasi  sempre, accrescono la paura di individui e collettività per il futuro  che li attende. Così è accaduto anche per la lunga tendenza «moderna»,  sotto la cui spinta la «laicità» dello spazio pubblico sembrava dover  imporre l’insignificanza – o addirittura l’ostracismo – di ogni  riferimento al sacro e al senso religioso. L’11 settembre ci ha colti di  sorpresa. E proprio l’evento dell’11 settembre, nel momento stesso in  cui ha mostrato la vulnerabilità dei sistemi di convivenza  dell’Occidente, ha costretto a prendere atto della lunga tendenza che  aveva distorto – e, nella noncuranza dei più, continuava a svilire – il  rapporto tra religione e politica. Nello splendido romanzo La sfera e la croce  del 1909, Gilbert Keith Chesterton mette in scena l’eterna lotta tra  fede e ateismo, incarnandola in due uomini: Turnbull, editore del  giornale L’Ateo  ed emblema del razionalismo; Mac Jan, ruvido scozzese legato alle  tradizioni e incline al misticismo. Siamo nei primi anni del XX secolo.  Per l’Europa, per la sua cultura prevalente, per le sue classi dirigenti  e per i ceti borghesi, la stagione della Belle Époque sembra dover e  poter proseguire senza fine, sospinta dal vento dell’irresistibile  progresso.
I personaggi secondari del romanzo non prendono  posizione rispetto al conflitto che oppone i due protagonisti. La  tranquillità della vita «normale», un’ordinaria esistenza senza  scossoni, è il loro interesse principale.
Il duello fra l’ateo e l’uomo di fede viene a disturbare, più che a turbare e a far pensare.
All’epilogo  del romanzo, i duellanti, che si sono a mano a mano conosciuti nel  corso dei loro scontri, incominciano a comprendersi l’un l’altro.  Turnbull confida all’avversario di aver sognato che la Croce «era stata  divelta mentre la Sfera era intatta al suo posto». A sua volta, Mac Jan  riconosce la necessità di «un mondo sferico sul quale piantare la  Croce»: come «noi non possiamo credere che la sfera rimarrà sempre una  sfera», così «non possiamo credere che la Ragione sia sempre  ragionevole». In modo nitidissimo, il duello fra i due personaggi di  Chesterton rispecchia i termini in cui la modernità ha concepito la  relazione fra ragione e fede. Pressoché l’intera cultura europea,  dall’Ottocento in poi, ha indicato nella secolarizzazione uno dei  presupposti indispensabili della modernizzazione. Il progresso delle  società, lo sviluppo economico, l’affermarsi delle democrazie e della  politica di massa, necessariamente portavano con sé la contrazione e la  perdita di valore del «sacro», sempre più sfidato (e talvolta irriso)  dalla «razionalità» che guidava gli avanzamenti e illuminava i risultati  delle scienze e della tecnica. Senza significative variazioni, il  convincimento che la marcia della secolarizzazione fosse inarrestabile  rimase saldo e divenne sempre più diffuso nelle scienze sociali fino  alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Le trasformazioni delle  società occidentali sembravano confermare empiricamente quel  convincimento, impedendone ogni razionale confutazione.
Qualcosa  di inatteso, però, incominciava già a essere percepito in quel periodo.  Fuori dall’Occidente, si manifestano i primi fermenti che, in seguito,  daranno forma al ritorno sulla scena politica dell’islam, nelle sue  differenti manifestazioni. E anche  all’interno del mondo occidentale, peraltro, si fanno più chiaramente  percepibili le tracce di quel fenomeno che Gilles Kepel ha definito, in  termini evocativi, la revanche de Dieu .  Anche nel dibattito contemporaneo, persistono i riflessi della  deformazione del rapporto fra modernizzazione e religione. Il ritorno  delle religioni – ridotto alle espressioni fanatiche del fondamentalismo  o, addirittura, del terrorismo – viene spiegato sovente grazie a una  chiave di lettura, per dir così, «primordialista». La presenza della  religione nell’ambito pubblico sembra allora contrastare proprio la  laicità di un tale ambito. E per molti studiosi, com’è noto, la  religione, proprio perché è componente essenziale e inscindibile di una  civiltà, oggi riaffiora in Occidente solo per il fatto che la civiltà di  quest’ultimo è o si sente minacciata.
Una simile connessione fra  religione e civiltà non solo è ambigua, ma risulta inadeguata a  comprendere e orientare le trasformazioni che hanno investito le nostre  società. In primo luogo, si dimentica che – come ha notato in alcuni  studi importanti Olivier Roy – le espressioni violente di fanatismo  religioso nascono spesso da una concezione individualistica della  pratiche religiose, e cioè da una netta, radicale rottura con le forme  religiose consolidate dalla tradizione. In secondo luogo, la visione  primordialista sottovaluta uno dei fenomeni più importanti che ha  contrassegnato il Novecento: la diffusione mondiale – dunque ben al di  fuori delle civiltà originarie – del cristianesimo e dell’islam, secondo  dinamiche che scaturiscono dalla combinazione della evangelizzazione,  della demografia, dei conseguenti flussi migratori.
Infine,  quando si interpreta il ritorno del sacro nei termini di un ritorno di  elementi primordiali, si sottovaluta il fatto che la revanche de Dieu  investe in profondità anche l’Occidente, e in particolare gli Stati  Uniti. Tanto che ci si è chiesti se la secolarizzazione del Vecchio  continente, lungi dal prefigurare una tendenza inarrestabile, non  rappresenti invece un’eccezione. Ma la rivincita di Dio non è affatto  l’esito di un rifiuto totale della modernizzazione. Semmai, essa genera  la necessaria critica di una particolare, benché assai diffusa, visione  della modernizzazione.
Forse – come ha sostenuto Shmuel  Eisenstadt – il ritorno globale della religione è il risultato  dell’affermazione di «modernità multiple»: proposte che vanno a  declinare in modo specifico il progetto, pur nutrito di contraddizioni e  ambivalenze, proprio della modernità occidentale. Ma, soprattutto, la  rivincita di Dio testimonia l’esaurimento di una determinata visione  della modernità: una visione in cui la fede nella scienza, nella  ragione, nella tecnica, è intesa nei termini di un conflitto  irresolubile con la fede religiosa.
In questo senso, dunque, la  rinascita globale delle religioni è la manifestazione della disillusione  non tanto nei confronti della ragione, quanto nei confronti della  ragione secolarizzata, di cui le religioni politiche novecentesche – le  ideologie – hanno fornito una rappresentazione che non si è ancora  conclusa. Questa disillusione fa affiorare tutte le contraddizioni  implicite nella struttura storico-logica della ragione secolarizzata. E,  al tempo stesso, il declino (o la fine) delle ideologie novecentesche  ripropone con forza, in un contesto del tutto mutato e in una condizione  di continui cambiamenti, la questione di come vedere il progresso e di  quale senso riconoscere nella storia. È il  problema a cui le ideologie moderne avevano risposto secolarizzando  l’escatologia giudaicocristiana. Ed è quello stesso problema che oggi,  al declinare delle ideologie e all’incrinarsi di quel superficiale  elemento di coesione costituito dal secolarismo, torna in modo nuovo a  scuotere soprattutto la vita di ogni individuo, le intere società e la  politica dell’Europa. La presenza della religione nell’ambito pubblico è  soprattutto necessaria per poter guardare con speranza al futuro delle  democrazie e, quindi, al domani dei popoli che nelle democrazie  continuano a vedere lo strumento migliore per promuovere la libertà e la  creatività dell’uomo. Non è senza significato che un numero crescente  di studiosi stia sottolineando come la presente crisi delle democrazie  contemporanee non sia soltanto determinata dai colpi dell’economia e  della finanza del sistema globale, o dalle crescenti insostenibilità di  un welfare illusoriamente garantito per sempre dallo Stato. Dopo aver  consumato le illusioni di una trascendenza integralmente «politica», le  nostre società tornano a confrontarsi con la domanda sul senso della  convivenza: tornano cioè a interrogarsi sul significato più profondo  dell’appartenere a una comunità, e dunque sulla radice autentica  dell’essere cittadini. Ma il logoramento della trascendenza politica  lascia il cittadino solo dinanzi a se stesso: solo dinanzi a domande  immutabili che non possono trovare una risposta adeguata  nell’insaziabile moltiplicazione di richieste, nella ricerca di  sicurezza materiale. Nelle nostre società la costruzione di un mondo  comune, la costruzione di un senso di appartenenza capace di dare un  reale significato alla cittadinanza, non può più giungere soltanto dalla  costruzione di una nuova «religione politica», di ideologie che  compongano scampoli di vecchi schemi ideologici.
Le società occidentali hanno definitivamente consumato il potere seduttivo delle ideologie novecentesche.
Ed  è proprio in questo contesto che il rapporto fra fede e ragione, fra  religione e democrazia torna a diventare fondamentale. Oggi – come ha  osservato Jürgen Habermas – le nostre società sono diventate società  post-secolari: vale a dire, società in cui, seppure non si sia  interamente perduta la fiducia nella modernità,  il suo mito e la convinzione della automatica diffusione dei suoi  benefici risultano profondamente logorati. Per questo, Habermas invita i  cittadini laici a «un superamento autoriflessivo della visione laicista  che la modernità laicista ha di sé». La presenza della religione e del  senso religioso nell’ambito pubblico è oggi essenziale per rafforzare i  caratteri costitutivi della convivenza sociale,  le qualità del sistema democratico, il suo normale funzionamento. Più  che intendere il ruolo pubblico della religione nei termini di una  minaccia nei confronti dello spazio laico della Res publica,  è infatti possibile concepire la partecipazione dei credenti al  dibattito pubblico – e la pubblica manifestazione della loro fede – come  articolazioni differenti della razionalità, come espressioni – per  usare la formula di Habermas – di un «disaccordo ragionevolmente  prevedibile». Ciò non significa affatto che la religione – in  determinate circostanze – non possa dar luogo a cedimenti della ragione,  a derive settarie e a forme di fanatismo. E non significa neppure che  la religione debba puntare a indicare e a imporre – a credenti e non  credenti – le norme morali dell’azione politica. Piuttosto, il ruolo  della religione è di aiutare la ragione nella ricerca di norme morali.  Come ha affermato Benedetto XVI nel suo discorso a Westminster Hall, il  17 settembre 2010: «Il ruolo della religione nel dibattito politico non è  tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser  conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni  politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza  della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare  luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali  oggettivi». Il ruolo pubblico della religione  in una società post-secolare non consiste infatti nella supplenza nei  confronti di una sempre meno efficace trascendenza politica. E non  consiste neppure nell’imporre una verità valida come fondamento della  convivenza comune. Piuttosto, si tratta di un ruolo correttivo: un ruolo  che si mostra tanto più proficuo, quanto più fede e ragione si trovino  fra loro in costante dialogo. Come ha ricordato ancora Benedetto XVI  nella stessa circostanza: «Il mondo della ragione e il mondo della fede –  il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso –  hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare  in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà».  				    
 
            