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Quella Chiesa nell'ombra di Gheddafi

Per conoscere meglio la chiesa cattolica in Libia pubblichiamo un reportage di padre Piero Gheddo pubblicato su Mondo e missione del marzo del 2007 ("Libia, viaggio tra i cristiani nel deserto").Il sito della rivista è www.missionline.org

ghe_1230973.jpgPartecipando, pochi giorni, alla vita della Chiesa e incontrando parecchi cattolici, due fatti mi hanno subito colpito: l’unità ecumenica di tutti i cristiani e il ritorno alla fede di non pochi occidentali. Ho capito meglio il valore di una minoranza cristiana in un mondo totalmente islamico. Un ingegnere e sua moglie, incontrati a una festa italiana, mi confidavano: «In Italia a Messa andavamo qualche volta; qui invece, immersi in una società islamica, ci andiamo sempre: abbiamo ritrovato il senso di appartenere ad una comunità di fede che ti sostiene e la gioia dei canti e delle devozioni di un tempo, che avvicinano a Dio». Il secondo motivo di stupore è l’importanza della testimonianza cristiana in una società islamica di per sé molto chiusa. La vita del popolo e la mentalità comune stanno cambiando molto, anche in forza del confronto quotidiano con i cristiani. La Chiesa di Libia è straniera, ma significativa per i rapporti con l’islam. Forse non esiste altro Paese arabo-islamico in cui la minoranza cattolica viva in modo così tranquillo, rispettata nei suoi limitati diritti di libertà religiosa ed esercitando un buon impatto con il «dialogo della vita», il vivere assieme ai fedeli dell’islam. Questo è frutto del cambiamento di linea politica che Gheddafi ha realizzato dopo il 1986, ma anche merito del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, l’unico sacerdote nato in Libia da genitori italiani nel villaggio di Breviglieri (oggi El Qadra).

Parla il libico meglio di tanti altri e si sente veramente inserito nel suo Paese natale. Il vescovo ha stabilito buoni rapporti con le autorità e con lo stesso Gheddafi. Quest’ultimo, addirittura, dopo il 1986, ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per gli ospedali della Libia (suo padre è stato assistito da religiose nella malattia e fino alla morte). Nell’incontro solenne e pubblico che si è tenuto il 29 dicembre 2006 il colonnello ha voluto «offrire alle due comunità musulmana e cristiana di Tripoli un’esperienza di amicizia e convivialità nel contesto delle due celebrazioni del Sacrificio di Abramo e del Natale, mettendo in evidenza la ricchezza del messaggio delle due fedi che richiede il rispetto vicendevole». I cattolici in Libia sono in maggioranza africani: vengono da Nigeria, Ciad, Camerun, Benin, Costa d’Avorio e altri Paesi. Vi sono poi filippini, indiani e un certo numero di occidentali (italiani, polacchi, spagnoli, francesi, tedeschi, oggi anche americani). C’è infine la comunità araba, formata da fedeli provenienti da Iraq, Siria, Giordania, Palestina, Libano e naturalmente Egitto. Più di due milioni di egiziani lavorano in Libia, nei commerci e nell’artigianato, ma anche numerosi professionisti, medici, insegnanti, professori universitari; e poi panettieri, meccanici, falegnami, parrucchieri, ecc. Gli egiziani parlano arabo e sono in genere musulmani come i libici, ma non mancano copti ortodossi e cattolici di vari riti.   

  Alla "festa delle candele" ecumenica (una cerimonia solenne, durata quasi quattro ore, celebrata in preparazione al Natale nella cattedrale cattolica di Tripoli), ho visto fedeli di più di venti nazionalità cantare i loro canti natalizi sul palco eretto al posto dell’altare. La liturgia è terminata con la benedizione del vescovo cattolico, di quello ortodosso e di quello copto, di una ventina di sacerdoti, pope e pastori ai fedeli che, spente tutte le luci, tenevano in mano una candela accesa. Una cerimonia commovente. Mi hanno detto che qui in Libia i cristiani sono molto uniti, si aiutano e si incontrano come fratelli: la chiesa cattolica di El Garabulli (una volta Garibaldi), dove oggi non c’è più una comunità cattolica, è retta, ad esempio, dal vescovo copto per gli egiziani. Le autorità religiose delle varie chiese si incontrano e a volte si presentano unite alle autorità libiche. La Chiesa è libera, ma in un quadro limitato di diritti. I francescani e altri sacerdoti assistono gli stranieri, per i quali c’è libertà di praticare la fede, a condizione di apparire all’esterno il minimo possibile. In tutta la Libia ci sono solo due chiese degne di questo nome, san Francesco a Tripoli e Maria Immacolata a Benghazi; esistono poi cappelle private in case di suore, in alcune ambasciate e imprese straniere che lavorano nel settore petrolifero e, infine, quelle costruite da padre Bressan nel deserto libico per i profughi africani. Nessun libico può diventare cristiano, per cui, ad esempio, la Chiesa non può stampare nessuna rivista o libro.
 
La cattedrale di Tripoli - unica chiesa della città - dispone di un ciclostile per gli avvisi della parrocchia da distribuire in chiesa ai fedeli. Ma la testimonianza dei cristiani è ben visibile, specie quella delle suore e infermiere cattoliche in ospedali, orfanotrofi, case per handicappati e anziani. Le suore in Libia sono 60-70. Parlo con una suora indiana di Madre Teresa, che lavora nell’assistenza agli handicappati. Come vede il popolo musulmano la vostra presenza? Risponde: «Siamo benvolute e rispettate da tutti. Soprattutto le donne sono contente di parlare con noi, di raccontarci le loro pene e problemi. Anche gli uomini che ci avvicinano ammirano la nostra dedizione ai malati, la pazienza, il fatto che vogliamo bene a tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri. Ma questa è la nostra vocazione cristiana e siamo educate fin da giovani ad amare il prossimo sofferente, non per nostro interesse, ma per amore di Dio». Perché infermiere e suore cristiane? Un medico indiano mi dice: «La sanità qui purtroppo funziona poco e male, specialmente fuori delle città, per mancanza di amore al malato, per ignoranza, per mille motivi. Per questo negli ospedali ci sono le suore e le infermiere cattoliche che danno esempio di come si lavora. Le strutture sanitarie ci sono, il personale è anche preparato tecnicamente, ma manca lo spirito di servizio all’ammalato». La comunità cristiana in Libia è concentrata attorno alle due chiese di Tripoli e di Benghazi (e a quella nel deserto a Sebha): i cattolici appartengono a una ventina di nazionalità, ma a causa dei pochi preti disponibili si assiste a una dispersione di piccole comunità e gruppi in città e villaggi. A Tripoli la chiesa di san Francesco è molto frequentata anche perché unico luogo d’incontro e di fraternizzazione dei vari gruppi di queste nazionalità; grazie ai locali attigui permette lo svolgimento di varie attività: biblioteca, uffici di curia e della Caritas, funzioni religiose, catechismo, prove di canto, locali per riunioni e gruppi di preghiera, salone per feste, teatri e concerti, cortile per i giochi dei bambini.
 
In passato a Tripoli erano aperte una decina di chiese fra grandi e piccole, compresa la maestosa cattedrale, oggi trasformata in moschea. Gli orari di Messe, incontri di preghiera catechismo in cattedrale sono un rompicapo: giorno per giorno, ora per ora si susseguono appuntamenti in inglese, arabo, italiano, francese, tedesco, spagnolo, polacco, persino in tagalog (la lingua dei filippini), coreano e sudanese. Lo stesso vescovo e il vicario generale, il maltese padre Daniele Farrugia, dato che un francescano polacco viene una volta al mese da Derna (dove opera un salesiano polacco), hanno imparato a celebrare in polacco! I filippini e gli indiani sono tanti e richiedono molto i preti. Poi ci sono le ambasciate e le multinazionali (la principale è l’Agip) che lavorano all’estrazione del petrolio nel deserto o su piattaforme in mare e ogni tanto chiedono di partecipare alla Messa. Infine, la Messa viene celebrata anche nelle comunità di suore (sei a Tripoli) e in alcune cittadine fino al limite estremo di Sirte, a ben 450 chilometri dalla capitale (dove un francescano si reca spesso in auto, lungo una strada fortunatamente ben tenuta). Sempre a Tripoli, in san Francesco si celebrano numerosi battesimi e cresime di filippini, indiani, africani e altri. La religione cristiana si insegna nelle ambasciate e nelle scuole private francese e italiana; il catechismo per adulti viene proposto a persone già cristiane di famiglia o provenienti da nazione a maggioranza cristiana, ma non battezzate. Non pochi sono gli arabi (egiziani, siriani, iracheni, libanesi, palestinesi, giordani) e anche i libici che vengono a chiedere l’istruzione religiosa e il battesimo. Ma la Chiesa osserva rigorosamente le norme del governo: non si possono battezzare. A Tripoli ci sono solo sette frati francescani e altrettanti a Benghazi, dove i cristiani sono più numerosi e dispersi in villaggi fuori città: tre padri risiedono a Tobruk, El Beida e Derna.

Per assistere in modo minimamente adeguato i cattolici in Libia ci vorrebbero non 14, ma una ventina di sacerdoti! Il governo assicurerebbe i permessi necessari, però mancano i preti... Com’è l’islam in Libia? Il regime punisce duramente gli oppositori, soprattutto i seguaci dell’estremismo islamico. Le moschee sono controllate dallo Stato che finanzia gli imam: l’istruzione religiosa del venerdì è preparata e approvata dal governo, che poi la manda alle moschee. L’imam deve leggere solo quel lungo testo, se toglie o aggiunge qualcosa perde il posto. A volte il potere centrale perde il controllo delle masse popolari scatenate, come nel caso delle proteste succedute alla pubblicazione delle vignette anti-islamiche danesi. A Benghazi venne bruciata l’unica chiesa esistente e la polizia consigliò i francescani di andare a Tripoli perché non riusciva a controllare la situazione. I religiosi tornarono dopo alcuni mesi. Ma quella era più una protesta politica della Cirenaica contro Gheddafi che contro la Chiesa cattolica e gli italiani.    Naturalmente una cultura secolare non cambia in pochi anni o decenni. Andando in auto verso Sirte, si vedono case di campagna con un alto muro che circonda il loro cortile, dove stanno le donne; con ogni probabilità non escono di casa se non accompagnate dal marito. A Tripoli la maggioranza delle donne ha il velo in testa, ma si respira un’altra atmosfera di libertà: le ragazze delle scuole superiori e università appaiono diverse dalle loro coetanee europee solo per il velo che copre i capelli. Padre Daniel Farrugia, maltese e vicario generale della diocesi di Tripoli, è in Libia da dieci anni. Gli chiedo della preghiera islamica, della quale si dice sia molto formale e condizionata dal controllo della comunità.

Risponde: «Certo, c’è anche del formalismo, come - del resto - fra noi cristiani. Ma io vedo che, per rimanere fedeli alla preghiera, i fedeli musulmani fanno sacrifici, ci credono davvero. Ad esempio: al mattino presto, in inverno, qui fa freddo; io esco per celebrare la Messa da alcune suore e vedo non pochi giovani che vanno in moschea. Devono pregare cinque volte al giorno e lo fanno con convinzione. Nei musulmani c’è l’adesione all’atto formale che devi fare. Ma non c’è dubbio che la gente comune preghi anche quando non la vede nessuno. Molti si fermano per strada e si inginocchiano rivolti alla Mecca per pregare». Un segno forte che padre Daniel vede nella fede dei musulmani è la celebrazione del Ramadan, il mese del digiuno che si può paragonare alla nostra Quaresima (ma ormai nei Paesi cristiani quanti celebrano la Quaresima col digiuno e le preghiere speciali?). «In Libia il Ramadan è celebrato da tutti, è un tempo sacro in cui la vita cambia, tutti ricordano che essa viene da Dio e ritorna a Dio. Seguendo il calendario lunare, il Ramadan capita anche d’estate. Qualche anno fa era in piena estate e faceva molto caldo. Mi trovavo su una spiaggia di Tripoli del tutto deserta. I musulmani in quel mese non vanno a bagnarsi, per paura di toccare l’acqua con le labbra! Ero coricato e prendevo il sole dopo il bagno. Lontano da me, ma non troppo perché non li vedessi, c’erano quattro giovanotti: in un periodo normale avrebbero fatto il bagno. Invece hanno tirato fuori due abiti della preghiera, bianchi e lunghi. Due li hanno indossati e si sono messi a pregare rivolti alla Mecca; poi hanno passato le tuniche agli altri due, anch’essi hanno pregato, quindi se ne sono andati. Non l’hanno fatto per farsi vedere: non c’era nessuno e io ero nascosto ai loro sguardi. Pregavano proprio perché ci credevano». Com’è l’atmosfera nel tempo del Ramadan? «È simile al nostro Natale, è l’attesa della liberazione dal peccato e dal demonio, come noi aspettiamo il Salvatore. La fede si rinnova. Alla fine c’è una grande festa, si mangia, si canta, si balla, si respira un’atmosfera di gioia, il senso della liberazione dal male. Il Ramadan è anche un’affermazione dell’identità islamica. Una delle grandi risorse dell’islam è che crea la Umma, ossia la comunità e un forte senso di appartenenza ad essa, quindi relazioni interpersonali vive: l’incontrarsi, scambiarsi opinioni, saluti e notizie , ecc. Se tu vai al mercato, trovi tanti giovani uomini e anche non più giovani seduti a chiacchierare. In quel momento non lavorano, ma per loro l’importante è far parte della comunità e della tua famiglia. Il resto viene dopo, il lavoro ad esempio. Lavorano molto se sono in difficoltà per le cose essenziali della vita, altrimenti no: il tempo che dedicano alla comunità non è tempo perso. Se un musulmano fa qualcosa di negativo, rimane sempre mio fratello. Si prega per lui, lo si richiama se è il caso, ma non lo si condanna mai».   

Piero Gheddo
© Famiglia Cristiana, 25 febbraio 2011
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