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Sposarsi, la missione (im)possibile

Il direttore del Censis Massimiliano Valerii interviene sulla previsione dell’istituto che immagina la fine delle nozze religiose nel 2031, ponendo una questione culturale. Un confronto a tre voci dal quale emerge l’importanza di promuovere una buona educazione sentimentale e alle relazioni, sostenendo il valore del matrimonio come struttura portante della società

Il direttore Censis e la provocazione sulle «nozze zero»

La verità, vi prego, sul matrimonio

 

Il direttore Censis e la provocazione sulle «nozze zero» Siamo davvero destinati a diventare una società a matrimoni zero? Di qui ai prossimi anni, le nozze in Chiesa saranno solo un ricordo e le relazioni sentimentali saranno più fragili perché vissute senza sposarsi? E questa tendenza costituisce una minaccia al ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto nello sviluppo sociale del Paese? Parafrasando W.H. Auden: la verità, vi prego, sul matrimonio. Lo studio del Censis diffuso in questi giorni analizza, in effetti, una crisi dell’istituto matrimoniale che appare epocale per gli sposalizi celebrati con rito religioso e in forte accelerazione anche per quelli civili.

Nel 1974 nel nostro Paese i matrimoni erano stati 403mila, nel 2014 si sono ridotti a meno di 190mila (53%). I matrimoni religiosi, in particolare, sono stati 108mila nell’ultimo anno, il 54% in meno rispetto a vent’anni fa, il 71% in meno dal 1974. Oggi le nozze in Chiesa costituiscono il 57% di tutti i matrimoni celebrati, vent’anni fa erano l’81%, il 92% quarant’anni fa. Con la crisi, poi, anche gli sposalizi in municipio hanno smesso di aumentare ai ritmi dei decenni passati, quando la laicizzazione del matrimonio aveva svolto una funzione di relativa compensazione, frenando il calo generale.

Se il trend registrato negli ultimi vent’anni rimanesse costante in futuro, verosimilmente il 2020 sarebbe l’anno del sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi e il 2031 l’anno in cui non si celebrerebbero più matrimoni in chiesa, ha stimato il Censis sulla base delle proiezioni statistiche. Le previsioni possono suonare come un puro esercizio teorico, ma servono a mettere il dito nella piaga. Perché ogni proiezione dice molto sull’assunto su cui si basa, cioè sui fenomeni sociali che abbiamo alle spalle.

Sarebbe limitativo ricondurre la crisi dell’istituto matrimoniale, che viene da molto lontano, alla deresponsabilizzazione affettiva delle giovani generazioni di oggi. Non siamo alla Tinder generation (dal nome del sito di appuntamenti), né all’apologia del dating, degli incontri mordi e fuggi, anche se tra i giovani appare innegabile una erosione della capacità progettuale di lungo periodo che dovrebbe essere associata alla scelta matrimoniale (non a caso, nel tempo aumentano i nuclei familiari unipersonali, cioè i single).

La verità è che il matrimonio ha smesso di essere il baricentro delle esistenze delle persone e della vita sociale. Coinvolge meno i giovani perché non è più una ragione primaria di uscita dalla famiglia d’origine; precede sempre meno l’esperienza della genitorialità; non funziona più come meccanismo di ascensione sociale per le donne. Rispetto al passato, infatti, ci si sposa sempre di più tra persone della stessa età e dello stesso status socioeconomico. Cenerentola oggi avrebbe poche chance di incontrare il suo Principe azzurro.

A un’analisi più avveduta non sfugge che quanto è successo dagli anni 70 in poi testimonia la vittoria del soggettivismo, che ha segnato fortemente la parabola di evoluzione della società italiana negli ultimi decenni. È un lungo corso di affermazione del primato dell’individuo che vuole decidere autonomamente sulle questioni centrali della sua esistenza, in cui si inscrivono anche i risultati dei referendum degli anni 70 sul divorzio e sull’aborto, fino a contemplare la possibilità – l’altra faccia della crisi del matrimonio – di vivere l’autenticità della propria relazione affettiva attraverso un libero patto d’amore al di fuori della cornice formale dell’istituto matrimoniale, religioso o civile. Si invertirà la tendenza? Non saranno certo sufficienti eventuali incentivi economici per riportare il matrimonio al centro della nostra società.

Così come non sarà un bonus bebè a fermare la denatalità che affligge il Paese. Perché, nell’epoca della disintermediazione (politica e sociale), la crisi del matrimonio va letta come il riflesso di una più generale tendenza a disconoscere l’autorità che c’è dietro quell’istituto – statuale o sacramentale che sia. Ecco perché la fuga dai matrimoni benedetti dal sacerdote come le stesse culle vuote ci riportano a quella solitudine esistenziale di individui che – protetti sempre meno dai sistemi di welfare pubblici e sempre meno capaci di elaborare il mistero e la fiducia come la fede richiede – non rischiano più, consapevoli che ogni azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali.

E questo vale anche, se non soprattutto, quando si tratta di sposarsi e mettere al mondo un figlio. Gli anni venturi ci diranno se sapremo ritrovare una nuova cultura del rischio, che significherà ritrovare un modo diverso di stare insieme.

Massimiliano Valerii, Direttore generale del Censis

© Avvenire, 19 luglio 2016

 

Il buon esempio dei territori “family friendly”

La svolta può arrivare da scelte controcorrente

 

Nel cuore della grande emergenza educativa c’è un problema ancora più vasto e profondo, che la comprende e la ingloba. E che, neppure tanto paradossalmente, ne sarebbe la soluzione radicale. Perché se si vuole davvero invertire il disagio educativo che inquina tanti rapporti pubblici e privati e determina situazioni acute di malessere sociale, non c’è che una strada. Quella di ridare fiato a un’idea di matrimonio come motore pulsante della famiglia, architrave della società, grammatica di virtù che si irradiano dalla realtà domestica e diventano patrimonio civile.

L’equazione che dovremmo riproporre con forza, non si presta a equivoci. Ha l’immediatezza di uno slogan e la forza della verità: più matrimonio, più famiglia, più benessere sociale. Quanto più i giovani – e meno giovani – vengono aiutati a comprendere che il matrimonio è la via preferenziale per il raggiungimento della massima felicità possibile, quanto più le famiglie vengono poste nelle condizioni migliori per svolgere al meglio i propri compiti, tanto più si costruisce un futuro migliore per tutti, con comunità più vivibili perché più accoglienti, sorridenti e solidali. Non si tratta di un’utopia, perché laddove, come in alcune aree del Trentino, si è avuto il coraggio di costruire una società quanto più 'family friendly' possibile, si è visto un aumento della natalità e un rallentamento della conflittualità familiare.

Ma non solo, sostenere le reti familiari a livello locale, si è tradotto in un beneficio per quelle aziende che hanno adottato protocolli integrati per la promozione del benessere familiare. In questo modo sono diminuite le ore di malattia ed è aumentata la produttività dei dipendenti. Nessuna ricetta magica, ma una serie di buone pratiche come tariffe agevolate per le famiglie numerose, progetti di conciliazione famiglia-lavoro, aiuti per le mamme lavoratrici, redditi di garanzia con prestiti agevolati per le giovani coppie. Per risultare vincenti questi progetti devono però essere costanti nel tempo.

Quando la politica ha il coraggio e il buonsenso di abbandonare i conflitti ideologici per mettere al centro la bellezza e la bontà del 'far famiglia', si scopre che gli effetti, dall’Italia alla Germania, dalla Finlandia all’Australia – come dimostrano le ricerche più attente – vanno tutti nelle stessa direzione: alla radice del bene comune si può essere solo la valorizzazione della famiglia come soggetto sociale. E quindi il matrimonio come struttura portante, irrinunciabile e insostituibile della famiglia stessa.

La grande rivoluzione culturale per rifondare la verità delle relazioni – che la Chiesa da parte sua ha avviato con l’Esortazione postsinodale Amoris laetitia – deve iniziare da qui. Rimettere il matrimonio tra uomo e donna in un circuito virtuoso in cui educazione e scelte politiche riescano a offrire proposte armoniche e non dissonanti. Capaci da un lato di debellare offerte devianti – come le false suggestioni del relativismo affettivo o le teorie del gender – dall’altro di confermare i giovani nel loro desiderio di affetti stabili e duraturi. La svolta è possibile. Non smettiamo di crederci.

Luciano Moia

© Avvenire, 19 luglio 2016

 

Le unioni nuziali sono «in crisi», eppure desiderate

Il mal-essere relazionale

 

Le unioni nuziali sono «in crisi», eppure desiderate Imercati, ci ripetiamo istericamente, hanno bisogno di certezze, non vanno 'inquietati' (un po’ come quelli squilibrati che è meglio assecondare). E per dargli queste certezze noi esseri umani siamo costretti alla liquidità e all’iperflessibilità efficiente. Ma noi di cosa avremmo bisogno, cosa desideriamo? Il rapporto Toniolo ci dice che l’80% di un campione di più di 9.800 giovani intervistati tra i 18 e i 33 anni desidera una famiglia con almeno due figli. Se accostiamo questo dato alla recente 'provocazione' del Censis che osserva, estrapolando l’attuale tendenza al declino dei matrimoni religiosi, che nel 2031 nessuno si sposerà più, scopriamo che la società in cui viviamo è drammaticamente incapace di soddisfare una dimensione fondamentale del ben-vivere umano (catturata da uno dei domini del Bes) quella delle relazioni interpersonali.

Possiamo disquisire sul fatto che ci sono tanti modelli di famiglia e di unioni, ma anche i trend degli altri modelli sono affetti dallo stesso virus, indicano cioè riduzione dei flussi e declino della stabilità dei rapporti. E anche chi vive la propria vita relazionale in altri modelli di famiglia e unione ha la stessa aspirazione di fondo di ciascun essere umano. Quello che la propria relazione duri per sempre (non ha caso vuole anche lui sposarsi). Deponiamo dunque per un attimo bandiere e appartenenze e proviamo laicamente ad affrontare il problema. Addentrandosi nella questione con molta prudenza, umiltà e generalità, senza cadere in giudizi e moralismi di confronti interpersonali perché, come è proprio di ciascuna relazione, fallimenti/successi vanno equamente divisi tra propri meriti e quelli del partner. Il virus delle relazioni ha caratteristiche molto semplici. Nella nostra cultura il bene relazionale è assimilato ai beni di consumo mentre si tratta in realtà di un tipico bene d’investimento.

Ovvero di qualcosa che non ci rende più felici se usiamo le relazioni affettive come album di figurine, rottamiamo le vecchie per sostituirle con le nuove. La relazione affettiva in fondo è una cosa molto semplice, è come un orto. Se ci metti un po’ di lavoro e passione ogni giorno non senti la fatica e ti godi un’opera bellissima che produce sempre nuovi frutti. Chi cerca fumettoni irrealistici si consoli con le pagine dei magazine del gossip.

Ma sappia che dietro quell’impalcatura mediatica c’è il nulla. Sono sempre di più quelli che, traviati dal modello del bene d’investimento, si sciolgono alla prima difficoltà e non hanno la saggezza di capire che con un po’ di pazienza un altro momento d’oro (più bello perché contenente la ricchezza dei precedenti) è dietro l’angolo. In una cultura di massa così effimera e liquida nella quale viviamo un matrimonio che si propone di durare per sempre è una provocazione insostenibile alla vera ideologia di massa nella quale la ruota della fortuna è ormai stata sostituita da tempo dalla ruota del criceto.

E 'bloccarsi' con un partner a vita vuol dire proprio sottrarsi alla ruota del criceto di un movimento dannato e perenne che è condannato a non approdare mai a nessuna meta. La questione numero uno dunque è come faranno i nostri figli a risolvere l’equazione tra desiderio di continuità e stabilità affettiva e la previsione matrimoni zero. Saranno condannati a essere eterni Peter Pan? E i loro figli senza contesti relazionali stabili saranno parcheggiati per 12 mesi all’anno in centri estivi realizzando l’incubo di alcuni modelli di società totalitarie? O scopriranno i futuri adulti anche loro che, senza un limite che diventa leva e punto d’appoggio della nostra traiettoria vitale (e in cui è dolce naufragare) l’identità umana rischia di non essere definita? Ma soprattutto la società del futuro li aiuterà o li ostacolerà, ovvero sarà abbastanza relation-friendly (amica delle relazioni)?

È ora di inserire con decisione questo fondamentale indicatore di benessere tra i criteri di valutazione di amministrazioni e aziende votando per i pionieri nella capacità di conciliare benessere relazionale con i loro tradizionali obiettivi. E sarebbe il caso che qualcuno tornasse a fare un po’ di educazione sentimentale (ai beni relazionali, diremmo oggi). Che è cosa ben diversa dai consigli sulle tecniche per evitare di fare figli indesiderati che sono un po’ come i foglietti delle istruzioni d’uso delle macchine. Siamo persone, e possiamo realizzare cose meravigliose. La sapienza delle relazioni purtroppo non si insegna più e si testimonia poco. Ma la nostalgia di un bene fondamentale sempre scarso può fare miracoli. Dobbiamo essere pronti su tutti i fronti (educativo, economico, politico) a saper cogliere questa domanda. Non certo consegnarci alla statistiche, e rassegnarci.

Leonardo Becchetti

© Avvenire, 19 luglio 2016

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