Stasera pane e acqua. Il ritorno del digiuno
La  "straordinarietà" (percepita da più parti) di tali scelte fa sorgere  una domanda, non scontata bensì attuale: ma oggi i credenti digiunano  ancora nella preparazione alla Pasqua? È ancora osservato il precetto  dell’«astinenza dalle carni»? E, più in generale, il senso cristiano  della penitenza rimane vivo o viene scalzato da un certo buonismo  "pastorale"? Esperti e teologi interpellati sulla questione variano le  loro considerazioni al riguardo. 
Il giudizio di padre Antonio Spadaro,  direttore de "La Civiltà Cattolica", è netto: «Fare penitenza in  Quaresima significa imparare a vincere le passioni momentanee per  ricordarci dell’essenziale, vivere i quaranta giorni di deserto col  Signore e non con noi stessi. Credo che stiamo perdendo questa abilità  dello spirito cristiano. La vita diventa una sorta di centro commerciale  dove l’attenzione è sempre desta e catturata da beni di consumo». 
Si  badi bene: per il gesuita siciliano «la penitenza cristiana non è una  sorta di autoflagellazione né un’ascesi fine a se stessa, ordinata  all’equilibrio di una vita più sana. Tale equilibrio è già importante,  ma il cristiano ha una intenzionalità molto più radicale: la conversione  decisa a Dio, l’orientamento a quelli che la liturgia chiama "beni  eterni" contrapposti a quelli di consumo». 
Cettina Militello,  una delle prime teologhe italiane, oggi docente al Marianum di Roma,  conferma la percezione della «perdita della dimensione penitenziale come  palestra di autoriconduzione ai valori veri. Ciò si inscrive nella  cesura della fede, ovvero la rottura della trasmissione della fede che è  un tutt’uno con la perdita culturale di un modello austero del vivere,  del parlare, dell’agire». La crisi economica in atto sta causando alcuni  "digiuni obbligati": «Va sottolineato che per tanti l’idea di una festa  continua viene messa in discussione dalla crisi. Bisogna fare i conti e  ci vanno di mezzo il divertimento, il cibo ricercato, i vestiti  firmati…».
Secondo la teologa il nodo è legare il senso del  digiuno alla solidarietà cristiana: «Anziché imporsi le diete a scopo  estetico, la sobrietà nel cibo dovrebbe essere riproposta come ricerca  dell’autenticità cristiana e della solidarietà con i fratelli che vivono  in condizione di privazione. La proposta del digiuno deve cambiare: non  la penitenza come paradigma esclusivo, bensì come un metodo per mettere  a fuoco il valore dei beni stessi dell’esistenza; una via per cogliere  meglio il valore del cibo, dei rapporti, degli averi e collegarli  all’indigenza degli altri, verso i quali la solidarietà non è un optional ma aspetto costitutivo della fraternità cristiana». 
«Non  ho dati o numeri precisi ma posso attestare, dalla mia frequentazione  del mondo giovanile e dai convegni cui sono invitato sul tema del  rapporto tra cibo e religioni, che tra i giovani forse il 10% sa e  pratica il digiuno e non mangia carni i venerdì di quaresima. Il  panorama su questo aspetto è desolante e preoccupante». 
La sconsolante disamina viene da un esperto in materia, il teologo Massimo Salani, docente allo Studio teologico di Camaiore (Lu) e all’Issr di Pisa. Nel 2001, con il suo libro A tavola con le religioni  (Edb), ha vinto il Premio nazionale di Storia e Saggistica. Dunque, un  ottimo conoscitore del legame tra alimentazione e spiritualità. E oggi,  com’è la situazione? «Tra i fedeli, salendo con l’età, ci si trova  davanti ad una pratica del digiuno frutto più che altro di tradizione,  ma non di convinzione». 
Cosa manca per arrivarci? «Non è stato  sufficientemente spiegato il rapporto intrinseco tra digiunare, pregare e  fare opere di carità. Se guardiamo ai Padri della Chiesa queste tre  dimensioni sono così legate al punto che se salta una, anche le altre  cadono». Salani riferisce di conoscere «piccole esperienze parrocchiali,  nate dal basso, in cui il 31 dicembre, al posto dei soliti "cenoni", si  organizzano cene "povere", devolvendo il corrispettivo alle mense degli  emarginati, e ci si riunisce a pregare». Anche l’astinenza dalle carni  va rimotivata: «I credenti di altre fedi non capiscono perché non  dobbiamo cibarci di carne ma possiamo farlo di pesce. Il problema non è  tralasciare la bistecca e mangiare salmone, ma capire che quanto spendo  per la carne posso donarlo agli ultimi». 
Più ottimista Lucio Coco, studioso di patristica (di recente ha curato l’Asceticon  di Isaia di Scete, Edizioni San Paolo): «Tra le persone a me vicine si  cerca di rispettare il digiuno». Quel che è da recuperare resta il senso  profondo del "fare a meno" per motivi spirituali: «La quaresima ci  ricorda questo: "Fatti un po’ da parte, cedi il passo, smetti di  accontentare te stesso, pensa agli altri. Riduci il tuo io, non cedere  alla lusinga della tentazione che ti promette potenza"». 
La  parola "penitenza", spiega il patrologo, ha nella sua etimologia la  radice "pena": «Contiene il significato di un dovere scontare qualcosa  per una colpa. Riecheggia un certo senso di giustizia che noi  esercitiamo nei confronti di noi stessi privandoci di qualcosa. Tuttavia  non rende la ricchezza del termine greco che traduce, "metánoia". In  questo caso non prevale la pena, ma il cambiamento di abitudini,  pensiero e stili di vita». Conversione, dunque: «Io posso anche  digiunare ma non come un automatismo. La penitenza dei Padri, cioè la  conversione, prima della giustizia prevede un atto di fede.  Diversamente, senza questo nostro re-inserirci in Dio, ogni nostra  azione risulterebbe slegata perché priva di quell’atto di fede in  Cristo, presupposto di ogni autentica penitenza».
E oggi servono  nuove forme di digiuno? Gli esperti interpellati avanzano proposte.  Spadaro ne suggerisce due: «Sarebbe interessante piazzarsi al centro di  uno shopping center e chiudere gli occhi, fare raccoglimento  vincendo gli stimoli continui e pregare in silenzio. Inoltre, nella  frenesia quotidiana occorre recuperare una "passività buona". 
Noi  agiamo spesso come risposta a stimoli. L’interattività è la categoria  del nostro agire. Invece è necessario un tempo per "limitarsi" a  guardare, leggere o ascoltare senza cedere alla tentazione a rispondere  agli stimoli: "Ho fame, dunque mangio; arriva una mail dunque devo  leggerla, …". Questa passività consiste nel riuscire a farsi incontrare  dalle cose, dalle persone, da Dio. Se viene cancellata, non c’è lo  spazio perché qualcosa di "nuovo" possa nascere nella nostra vita, tanto  meno la conversione». 
Coco evoca il "non necessario": «Si cerca  di estendere il digiuno ad altre pratiche, quali spegnere il televisore  o evitare il superfluo. In alcuni casi ho notato la tendenza recente a  evitare le varie forme di giochi e scommesse che stanno proliferando».  Militello invece punta sulle relazioni: «La Quaresima potrebbe impegnare  (e so che lo si fa) una comunità nel farsi carico di altre comunità, di  classi di persone, di situazioni di disagio. 
Ad esempio  potrebbe suggerire personalmente, in famiglia e nel lavoro un ascolto  più attento degli altri». Salani sostiene di voler «difendere il valore  del digiuno alimentare. I Padri sostenevano che "il digiuno è l’anima  della preghiera". Non è questione di estetica o di perdere qualche etto,  ma di riscoprire il legame che lega digiuno, preghiera e carità». 				    
            