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La Comunità Cristiana e i Presbiteri. L’esortazione di Pietro

Meditazione di Sr. Elena Bosetti sjbp, suora di Gesù buon Pastore, della Famiglia Paolina, al Ritiro Spirituale per il Clero diocesano. Oasi S. Maria, Cassano Murge, venerdì 14 dicembre 2012

San_Pietro.jpgPremessa

Questo nostro ritiro non può prescindere dal contesto liturgico che ci vede inoltrati nell’Avvento, già prossimi al Natale. Nella Prima lettera di Pietro cosa significa “avvento”, quale attesa caratterizza le comunità cristiane a cui Pietro indirizza il suo scritto? In quale contesto si trovano a vivere coloro che sono stati “rigenerati” per una speranza viva?

La 1Pietro concepisce l’esistenza cristiana in chiave di speranza. Generati a vita nuova dalla grande misericordia del Padre mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti (1,3), i credenti sono esortati a “cingere i fianchi della mente”, metafora esodale: evoca i “fianchi cinti” degli Israeliti nella prima pasqua (Es 12,11). Lo scopo di questa mente “cinta”, vigile e disciplinata, è proprio la speranza, primo imperativo di questa lettera: “sperate (elpìsate) completamente” (1Pt 1,13).

L’esistenza cristiana si dispiega tra il già e il non ancora della speranza, tra la rinascita battesimale e il traguardo della fede, la salvezza definitiva, l’eredità che “non si corrompe, non si macchia e non marcisce, custodita nei cieli”, recita la solenne benedizione (berakah) che apre la lettera (1,3-5).

Ecco la grande attesa della prima comunità cristiana: la salvezza che sta per essere rivelata nell’avvento glorioso del Signore Gesù. Questa viva speranza riempie di gioia anche nelle tribolazioni del tempo presente, le quali hanno lo scopo di purificare la fede, più preziosa dell’oro, affinché essa appaia in tutto il suo splendore quando Gesù Cristo si manifesterà. “Voi lo amate, pur senza averlo visto – dichiara Pietro con stupore – e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1,8-9).

 

1.             Nella diaspora

Quale idea di Chiesa emerge dalla 1Pietro? Notiamo subito un dato sorprendente: la parola “chiesa” (ekklesia), così rilevante nelle lettere di Paolo, manca del tutto nella 1Pietro. Come mai questo silenzio? Sorprende ancor più perché nel vangelo questa parola è legata proprio alla figura di Pietro: “tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18).

 

  • Quale altro nome utilizza allora la 1Pietro per designare la comunità cristiana? Mi colpisce una parola che non compare altrove nel Nuovo Testamento: “fraternità” (adelphothēs). Pietro concepisce la Chiesa come “comunità di fratelli” (1Pt 2,17), “la fraternità” nel mondo (5,9). Questa parola (così cara a Francesco d’Assisi) è tipica della 1Pietro.

 

  • La chiesa è vista come casa di “pietre vive” costruita su Cristo pietra viva (1Pt 2,4-5). È interessante che proprio l’apostolo che Gesù ha chiamato “Pietro” utilizzi la metafora della “pietra” non per parlare di sé, ma di Cristo e dei cristiani. Cristo è la “pietra viva” e i battezzati in lui sono altrettante “pietre vive” che vengono edificate (da Dio) in “casa spirituale” (oikos pneumatikos) per formare un “sacerdozio santo” (1Pt 2,5

 

  • Pietro si rivolge «agli eletti forestieri della diaspora» (1,1). I cristiani sono visti anzitutto in una fondamentale relazione di gratuità con il Padre, lo Spirito e Gesù Cristo. Essi sono «eletti» secondo il piano salvifico del Padre, mediante lo Spirito, per l’obbedienza di Gesù Cristo. E proprio in quanto eletti, sono radicalmente “stranieri e forestieri”. Come già Abramo che si qualifica “straniero e di passaggio” (Gen 23,4).

 

·         Un’altra parola cara alla 1Pietro è paroikia (da cui deriva “parrocchia”), parola che designa la condizione straniera, il tempo del pellegrinaggio (1Pt 1,17). Da un lato Pietro esorta a vivere da “stranieri” (paroikoi, da cui “parroci”) e, d’altro lato, invita a restare nella società pagana senza costruire ghetto, sulle orme del Cristo pastore e custode (1 Pt 2,21-25). È Lui il centro di coesione della «fraternità sparsa nel mondo» (1 Pt 5,9).

 

·         Questa concezione dell’identità cristiana verrà ripresa e sviluppata in un celebre passo della Lettera a Diogneto: «I cristiani vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera» (I Padri Apostolici, Città nuova editrice, Roma 1978, 356).

 

·         Pietro invita i cristiani a non emigrare dalle situazioni difficili, contrastando con le belle opere la campagna diffamatoria orchestrata contro di loro. Propone un comportamento audace che punta sulla forza dell’amore, sull’ostinata prassi del bene. Quanti denigrano i cristiani come malfattori devono avere la possibilità di ricredersi osservando le loro «belle opere», anzi devono poter giungere a glorificare Dio nel giorno della sua visita (1Pt 2,12).

 

·         Non è solo questione di apologetica, ma di una strategia di evangelizzazione che fa leva sulla testimonianza, sul fascino della bellezza, di una vita che ricalca le orme del Cristo, la sua umiltà e mitezza (1Pt 3,4.15). Si ha fiducia che i servi (schiavi) potranno incidere positivamente sui padroni ostili (2,18) e che le donne, senza bisogno di prediche, potranno conquistare alla Parola i mariti non credenti (3,1-2).

 

2.      Cristo pastore e vescovo

 

L’icona di Cristo “pastore e vescovo” appare a conclusione del brano cristologico (1Pt 2,21-25) che fonda l’esortazione rivolta ai domestici (oiketai) sottoposti a padroni difficili (2,18). Pietro chiede a questi servi, diventati cristiani, di stare al loro posto, continuando a fare il bene (= a vivere onestamente), anche se ciò può comportare di soffrire ingiustamente. La loro situazione richiama quella del Cristo, il Servo sofferente del Signore (Is 53).

Mentre i loro padroni non si fanno scrupolo di trattarli duramente, il Cristo li ha amati gratuitamente fino a dare la sua vita: “patì per voi”. Dalle paghe di Lui sono stati guariti e dunque resi capaci di amare a loro volta anche i loro padroni duri e ostili. La conclusione del brano presenta l’esodo dei cristiani (da erranti a ricondotti) e contemporaneamente l’esodo definitivo del Cristo (da Servo sofferente a Pastore):

Eravate erranti come pecore,

ma ora siete stati ricondotti

al Pastore e custode delle vostre anime (1Pt 2,25).

 

·           Le pecore, diversamente da altri animali come il cane e il gatto, non sono in grado di tornare indietro da sole: o il pastore le va a cercare o saranno definitivamente perdute, preda di animali feroci. Dire pertanto: «eravate erranti come pecore», significa affermare l’assoluta incapacità di tornare indietro per virtù propria. Infatti è Dio che ha ricondotto coloro che erano erranti “come pecore”. Annuncia Dio per bocca del profeta Ezechiele: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse, le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele» (Ez 34,16).

 

1Pt 2,25 presenta la riconduzione degli erranti come opera di Dio (“siete stati ricondotti” è un passivo teologico) e in tal senso dichiara implicitamente compiuto l’oracolo di Ezechiele. Ma dove sono ricondotti gli erranti? Non già nella terra santa, sui “monti di Israele”, né a Gerusalemme. Nella prospettiva di Pietro gli erranti non sono ricondotti all’ovile (dentro un sacro recinto) ma sono ricondotti a una persona vivente: il Cristo Pastore. Così il punto di arrivo della riconduzione è già un nuovo punto di partenza. Il pastore infatti è figura dinamica: «cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono» (Gv 10,4).

 

Riconducendoli al Pastore, Dio ha posto i credenti in condizione di seguire le sue «orme» (1 Pt 2,21) e al contempo di godere della sua vigile protezione, come suggerisce il secondo titolo che qualifica il Cristo: episkopos, da cui deriva «vescovo». I due titoli costituiscono propriamente un’endiadi dove il secondo titolo specifica il primo e ne designa il compito. Il senso equivale a “pastore che vigila, pastore che custodisce”.

 

3.      Il ministero pastorale dei presbiteri

 

Concentrata in soli quattro versi, l’esortazione a presbiteri si dispiega con un movimento lento, quasi solenne:

 

Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi:

pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo

non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio,

non per interesse, ma con animo generoso,

non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge.

E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce (1 Pt 5,1-4).

 

Dopo essersi introdotto all'inizio della lettera come «apostolo di Gesù Cristo» (1,1) Pietro si presenta qui in maniera più ampia e diretta. Egli offre tre indicazioni preziose. Anzitutto si qualifica «compresbitero» (sympresbyteros), quindi «testimone» (martys) delle sofferenze di Cristo, e infine «partecipe» (koinonos) della gloria che deve rivelarsi.

 

  • Il suo intervento non muove dall’alto verso il basso. Non fa leva sul concetto di autorità, tanto meno sul prestigio personale o su ragioni di convenienza; punta decisamente su basi di condivisione e di solidarietà.

 

  • In primo luogo Pietro esprime la propria solidarietà ai presbiteri d’Asia che si trovano a guidare le comunità cristiane in situazione di contrasti e di avversità. Si presenta infatti come sympresbyteros, con-presbitero, dunque sullo stesso piano, partecipe del medesimo incarico

 

·         Ma c'è di più. Egli parla quale testimone delle sofferenze di Cristo allo scopo di incoraggiare e consolare i suoi fratelli di fede. Questa presentazione ha il valore di un testamento. La chiesa di Roma consegna alle chiese sorelle la testimonianza di Pietro come modello di ministero pastorale.

 

  • Il ministero dei presbiteri è sintetizzato in due verbi: poimanate episkopountes = “pascete sorvegliando/facendo da vescovi”. Le stesse voci si ritrovano collegate nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha posti come sorveglianti/vescovi (episkopoi) per pascere (poimainein) la Chiesa di Dio» (At 20,28).

 

Pietro non spiega cosa concretamente significhi «pascere il gregge di Dio». L'esortazione non verte sul concetto di ministero, ma sul modo di svolgerlo, sullo stile del pascere: non in modo qualunque, ma alla maniera del Cristo, pastore e vescovo.

4. Le tre norme della regola pastorale

Approfondiamo brevemente queste tre norme espresse in forma antitetica.

 

-      Non costretti ma volentieri

Perché i presbiteri sono esortati a pascere volontariamente? Essere cristiani era motivo di scherno e di sofferenza. In tale contesto le guide della comunità cristiana erano probabilmente prese di mira e potevano avvertire il loro compito come un peso, come un fardello... Esortando i presbiteri a pascere il gregge volentieri, Pietro li invita a riscoprire le motivazioni vocazionali che stanno all'origine del loro ministero. La prima norma del servizio pastorale è la libertà interiore, la volontarietà. Il senso di questa direttiva ricalca Gv 10 dove il pastore buono Gesù afferma di porre volontariamente la vita a favore del gregge, senza costrizione da parte di alcuno, ma per libera obbedienza al piano salvifico del Padre.

 

-      Non per interesse ma con animo generoso

La seconda direttiva mette in guardia contro l’avidità di guadagno. Sappiamo come i profeti rimproverano ai pastori d’Israele la ricerca dell’interesse personale (Ez 34,2-5). Pietro esorta dunque a prendersi cura del gregge di Dio con animo generoso e magnanime, resistendo alla tentazione di arricchire a spese della comunità.

Anche Paolo insiste sul tema del disinteresse nel suo discorso ai presbiteri di Efeso, facendo esplicito riferimento al suo esempio: «Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,33-35).

L’esortazione petrina suggerisce di resistere all'avidità di guadagno (qualunque esso sia: denaro, prestigio, carriera, affetto…) Non l'amore al guadagno, ma l'amore al gregge di Dio deve essere l'anima del ministero pastorale!

 

- Non padroni ma modelli del gregge

 

La terza norma mette in guardia dalla tentazione di «signoreggiare» (come indica il verbo katakyrieuô), di far valere i diritti del padrone. Ma i cristiani non sono proprietà dei presbiteri!

Questa direttiva ricalca l'insegnamento di Mc 10,42-45 e Mt 20,24-28 sull'esercizio dell'autorità. I discepoli sanno per esperienza diretta come si comportano i potenti di questo mondo: «i capi delle nazioni le spadroneggiano e i loro grandi esercitano il potere su di esse» (Mc 10,42). Ma ciò non deve verificarsi nella comunità di Gesù: «Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra di voi si farà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra di voi sarà il servo (doulos) di tutti» (Mc 10, 43-44).

Gesù cita il proprio esempio: «Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita come riscatto per molti» (Mc 10,45). Il vangelo di Giovanni fa precedere l'insegnamento del Maestro da un gesto inequivocabile, la lavanda dei piedi (13,12-15). La parola usata per indicare l'esempio di Gesù è hypodeigma, «dimostrazione». Gesù lascia un esempio visivo di ciò che i discepoli sono chiamati a compiere.

In breve, ai presbiteri è chiesto di essere dei «modelli concreti» in ordine alla sequela di Gesù Cristo. Il gregge di Dio ha infatti il diritto di trovare coerenza nei suoi dirigenti: coerenza tra la parola che essi annunciano e la concretezza della loro condotta.

 

5. L’attesa del Pastore supremo

 

L'esortazione ai presbiteri culmina in una promessa: non rimarrà senza ricompensa il servizio disinteressato al gregge di Dio, ma avrà il riconoscimento che si suole tributare ai vincitori: la corona di gloria. Essa, diversamente dalle corone poste in capo ai vincitori delle gare sportive o ad altri personaggi emeriti, sarà intrecciata di fiori che non appassiranno mai (cf. 1Pt 5,4).

 

  • Il testo suggerisce un'attesa escatologica vivissima e la convinzione che la manifestazione definitiva del Signore Gesù coinciderà con la partecipazione dei cristiani alla sua gloria. I presbiteri saranno partecipi della gloria escatologica del sommo Pastore se nel frattempo diventano testimoni – come lo fu Pietro – delle sue sofferenze, tramite l'esercizio del ministero pastorale.

 

  • La lettera insiste sul tema delle sofferenze di Cristo e non a caso tale insistenza viene da Pietro che ha riconosciuto in Gesù il Messia, ma che si è ribellato all’idea di un cammino di dolore e di morte (Mc 8,30-33).

Ma il Pietro convertito può confermare i suoi fratelli (Lc 22,32). Egli orami è “testimone delle sofferenze” di Cristo e dunque partecipe della sua gloria (1Pt 5,1). In maniera analoga, i presbiteri solidali con le sofferenze del gregge di Dio tramite l’esercizio volonteroso, gratuito e umile del loro ministero pastorale, riceveranno dal supremo Pastore la corona di gloria eterna.

 

Elena Bosetti, sjbp

 

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Elena Bosetti, nata a Pressano di Lavis (TN)  il 14 agosto 1950, è suora di Gesù buon Pastore, della Famiglia Paolina.

Dottore in teologia biblica, è autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative tradotte in più lingue e ha commentato per diversi anni il Vangelo nel programma “A sua immagine - Le ragioni della speranza” (Rai Uno).

Già docente di ecclesiologia e di esegesi del NT alla Pontificia Università Gregoriana e in altri Atenei romani, insegna all’Istituto di Teologia per la Vita Consacrata “Claretianum” (Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “C. Ferrini” (Modena).

Collabora con diverse Riviste di carattere teologico e pastorale. Si dedica al ministero della Parola e alla formazione biblica, in Italia e all’estero.

Ha conseguito presso la Pontificia Università Gregoriana (Roma) il baccalaureato in Filosofia (1973) e la licenza in teologia con specializzazione in dogmatica (1978). Ha frequentato lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (1982-84) e trascorso vari periodi di ricerca presso l’École Biblique. Nel 1988 ha conseguito il dottorato in teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana, con la tesi «Poimēn kai Episkopos: la figura del pastore nella Prima Lettera di Pietro (2,18-25; 5,1-4)».

Tra le sue pubblicazioni:

-         Il Pastore. Cristo e la chiesa nella Prima lettera di Pietro (Supplementi alla Rivista Biblica, 21) EDB, Bologna 1990.

-         Yahweh Shepherd of the People. Pastoral Symbolism in the Old Testament, St Pauls, Slough (UK) 1993.

-         Cantico dei Cantici: “Tu che il mio cuore ama”, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001.

-         con A. Colacrai (edd.), Apokalypsis. Percorsi nell’Apocalisse di Giovanni. In onore di Ugo Vanni, Presentazione di Carlo M. Martini, Cittadella Editrice, Assisi 2005.

-         Donne della Bibbia: bellezza intrighi fede passione, Cittadella Editrice, Assisi 2009.

-         Meditating with Scripture: John's Gospel, The Bible Reading Fellowship, Abingdon (UK) 2010.

-         Sandali e bisaccia. Percorsi biblici del “prendersi cura”, Cittadella Editrice, Assisi 2010.