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XXV Domenica del Tempo Ordinario anno A. Misericordia non meritocrazia!

Gesù parla di gratuità, di una misericordia che non va meritata, ma accolta con gioia come amore riversato su tutti noi, tutti fratelli e sorelle, tutti figli e figlie amati da Dio. Di fronte a questo amore non ci sono privilegi da vantare, ma solo un dono da accogliere! E se cercassimo di andare a lui forti di nostri presunti meriti, non riusciremmo a conoscere il suo amore, sempre gratuito e mai meritato.

Dopo la parabola del servo spietato che non sa reiterare la misericordia e il perdono ottenuti (cf. Mt 18,21-35), eccone una sulla scandalosa misericordia di Dio. Scandalosa perché non è meritocratica, cioè non è un sentimento, un’azione di Dio che raggiunga gli esseri umani a partire dai loro meriti; non può essere conquistata e tantomeno acquistata, ma può solo essere accolta come un dono: essa è gratuita, per questo il suo nome è anche “grazia”. Dio fa grazia nella sua infinita libertà e nel suo infinito amore, e nessuno può pretendere premi, né tanto meno privilegi, per elezione o vocazione.

- Gesù fa l’annuncio di questa buona notizia in una parabola raccontata in tre scene e completata da un commento finale (v. 16):
- a ore diverse, dall’alba fino al tardo pomeriggio, il padrone della vigna esce per ingaggiare lavoratori (vv. 1-7);
- alla sera egli paga i lavoratori (vv. 8-10);
- infine il padrone giustifica il proprio comportamento (vv. 11-15).

Il protagonista della prima scena è “un uomo, un padrone di casa”, in seguito definito anche “padrone della vigna”, che agisce dal mattino alla sera, uscendo di casa per andare nella piazza a cercare lavoratori per la sua vigna, com’era abitudine a quei tempi. Fin dallo spuntare dell’alba, dunque fin dalle sei, si reca sulla piazza e chiama dei lavoratori, stipulando con loro un contratto: li pagherà, per la giornata intera, un denaro, secondo le tariffe del mercato di quell’epoca. Poi esce di nuovo verso le nove e assolda altri operai, promettendo loro: “Quello che è giusto ve lo darò”. Fa lo stesso verso mezzogiorno, verso le tre e addirittura verso le cinque del pomeriggio. A quelli che trova sulla piazza quasi alla fine del giorno chiede ragione del loro starsene senza far niente, ed essi rispondono: “Nessuno ci ha presi a giornata”, cioè “siamo rimasti disoccupati”. Il padrone fa molte chiamate, non esclude nessuno, offre lavoro a tutte le ore: esce di casa per ben cinque volte, anche nel tardo pomeriggio, quando si avvicina il tramonto e non resta che un’ora soltanto utile per il lavoro.

Da questa prima scena risulta che tutti quelli che erano sulla piazza del mercato sono stati chiamati dal padrone e che alla sera non vi sono più disoccupati. Si noti anche che questo ingaggio è fatto dal padrone stesso, non da un suo amministratore: ciò è molto strano, perché i proprietari di solito non entravano direttamente a contatto con lavoratori sovente sporchi, vestiti con abiti indecenti e comunque rozzi. Ma tale comportamento indica la sollecitudine di questo padrone, che vuole vedere in faccia chi lavora nella sua vigna e vuole stipulare lui stesso i contratti con i suoi operai.

Giunge la sera e gli operai ritornano dalla vigna. Il padrone, uomo giusto e anche generoso, osserva fedelmente la legge: “Non sfrutterai il salariato povero e bisognoso … Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e attende ciò con impazienza. Non alzi grida al Signore contro di te: sarebbe grande il tuo peccato!” (Dt 24,14-15). Il padrone chiama dunque l’amministratore e gli ordina di pagare i lavoratori, incominciando dagli ultimi e terminando con i primi ingaggiati. L’ordine dei chiamati è capovolto, e questo fa sì che i primi possano osservare quale salario il padrone ha corrisposto a quanti hanno lavorato meno di loro. L’amministratore, secondo l’ordine ricevuto, comincia con il dare un denaro agli operai dell’ultima ora. Quelli che hanno lavorato fin dal mattino presto pensano allora di dover ricevere una paga più alta: hanno lavorato più ore, dunque meritano di più! Si crea in loro un’attesa, ben presto delusa. Il testo annota infatti laconicamente: “… ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro”, né più né meno degli altri.

Se fin qui erano descritte quasi solo azioni, con l’eccezione del rapido accenno al pensiero balenato nella mente degli operai assoldati al mattino presto, nell’ultima scena Gesù, mostrando tutta la sua abilità di narratore e di conoscitore del cuore umano, si arresta a considerare i sentimenti dei personaggi. Gli operai della prima ora passano dal pensiero fugace al paragone con gli altri lavoratori: da ciò nasce la rabbia per essere stati trattati come gli altri, e la loro attesa frustrata li spinge infine a mormorare. Mormorare, questo terribile uso della parola, purtroppo tanto familiare e attestato nella chiesa e nelle comunità; tante volte ci siamo soffermati su questo autentico cancro delle relazioni umane…

Questi lavoratori recriminano, esponendo con rabbia al padrone il risultato delle loro parole scambiate nel nascondimento: “Abbiamo lavorato dal mattino alla sera, abbiamo faticato per dodici ore, abbiamo sopportato il peso della calura, sotto il sole cocente, mentre questi ultimi sono giunti a giornata quasi finita, hanno lavorato un’ora sola, nella frescura del tramonto, eppure tu li hai fatti uguali a noi”. Questo, in ultima analisi, ciò che non riescono a sopportare: “loro sono stati fatti uguali a noi”, chiamati per primi e chiamati per ultimi sono tutti uguali! Ai loro occhi ciò appare come un’ingiustizia, un atteggiamento che non vede né riconosce i meriti. Di conseguenza, il padrone è da loro ritenuto ingiusto, quindi insopportabile. Costoro ci rappresentano bene: quando infatti vogliamo affermare quella che ci appare la giustizia, ci sentiamo carichi di autorità, alziamo la voce per esprimere in modo anche duro la nostra convinzione. “La giustizia innanzitutto!”, diciamo, e non ci sfiora nemmeno il pensiero che la nostra giustizia può essere limitata e che ci possano essere altri criteri di giustizia. Quando gli altri esprimono giudizi di giustizia su di noi, li sentiamo duri; quando invece noi ci possiamo appellare alla giustizia per giudicare, ci sentiamo forti, alziamo la voce…

Su quella mormorazione interviene risolutamente il padrone della vigna, rivolgendosi a uno dei contestatori. Innanzitutto lo chiama “amico”, termine utilizzato nella parabola del banchetto nuziale, per indicare l’uomo sprovvisto dell’abito per la festa (cf. Mt 22,12), e addirittura da Gesù per Giuda, nell’ora del tradimento (cf. Mt 26,50). Il rimprovero è dunque introdotto in modo amichevole, forse non privo di una certa ironia. Il padrone ricorda inoltre che ha rispettato il compenso pattuito, quindi non ha fatto alcun torto, non è stato ingiusto. Ma non vuole calcare la mano, per questo congeda il mormoratore senza alcuna parola di condanna: “Prendi il tuo denaro e vattene”.

Poi però prosegue, con l’intenzione di spostare l’accento sulla propria gratuità: “Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?”. Egli certamente rispetta la giustizia, e quindi l’accordo stabilito, ma vuole dare di più a colui al quale spetterebbe meno, affinché possa portare a casa il salario necessario per sé e per la propria famiglia. Mostra pertanto una giustizia altra da quella prospettata e attuata dagli uomini: una giustizia non retributiva né meritocratica. Tale concetto di giustizia, che Gesù attribuisce a Dio, scandalizza i devoti che si affaticano a contare le loro azioni per poter enumerare i loro meriti. “Lavoro, guadagno, dunque pretendo!”: questo volgare modo di esprimersi è all’insegna di una logica che ci abita e che dobbiamo sforzarci di estirpare dal nostro cuore. Accanto a noi ci sono persone meno fortunate per nascita o per storia; ci sono persone deboli che non lavorano come noi perché non possono; ci sono quelli che non hanno un lavoro o che la malattia ha reso meno produttivi. Questi non sono scarti da dimenticare o, peggio, da abbandonare: sono nostri fratelli e sorelle, carne della nostra carne, e noi dobbiamo pensare anche a loro, a immagine del signore della vigna che nella sua generosità misericordiosa non vuole che un altro essere umano torni a casa, dalla propria famiglia, senza il necessario per vivere.

Infine il padrone della vigna mette a nudo un rischio presente nell’atteggiamento di chi fa paragoni con gli altri: “Oppure il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?”. Con questa semplice domanda tratteggia il meccanismo dell’invidia, termine che deriva da in-videre, cioè “non voler vedere” la felicità, il bene, la gioia dell’altro, come se questa attentasse alla nostra. Gelosia e invidia possono nascere nel nostro cuore – perché “è dal cuore umano che nasce … l’occhio cattivo” (Mc 7,21-22) – ma vanno combattute, per giungere progressivamente, nell’esercizio dell’ascolto dell’altro, della com-passione e dell’empatia con lui, a gioire quando l’altro beneficia della bontà nostra, che è sempre anche bontà di Dio.

Quanto questa parabola sia scandalosa lo possiamo misurare anche leggendo una parabola rabbinica, ispirata con buona probabilità alla nostra:

Un re, che aveva ingaggiato molti operai, venne a controllare il lavoro che svolgevano. Notò che uno di loro era più abile e svelto di tutti gli altri; gli chiese allora di accompagnarlo in una passeggiata che durò tutto il resto della giornata. Alla sera gli diede un compenso uguale a quello degli altri che erano rimasti a lavorare. Questi allora protestarono: “Noi abbiamo lavorato duro tutto il giorno e costui, che ha lavorato soltanto due ore, ha ricevuto il nostro stesso salario. Non è giusto!”. Rispose allora il re: “Costui ha fatto più lavoro in due ore che voi in un giorno intero” (Talmud di Gerusalemme, Berakhot2,3).

Il contrasto con la parabola evangelica non potrebbe essere più netto: qui vi è una logica meritocratica, mentre Gesù parla di gratuità, di una misericordia che non va meritata, ma accolta con gioia come dono e come amore riversato su tutti noi, tutti fratelli e sorelle, tutti figli e figlie amati da Dio. Di fronte a questo amore non ci sono privilegi da vantare! Facciamoci una domanda: come pensiamo il nostro rapporto con Dio? Come relazione nella grazia o come prestazione meritoria? In verità solo la grazia di Dio può instaurare la comunione con noi; e se cercassimo di andare a lui forti di nostri presunti meriti, non riusciremmo a conoscere il suo amore, sempre gratuito e mai meritato.

Degna conclusione di questa parabola che canta la misericordia del Signore, che non crea primi e ultimi, ma tutti vuole salvare, mi pare un brano della Catechesi sulla santa Pasqua attribuita a Giovanni Crisostomo:

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo e serve il primo.

La misericordia infinita del Signore, che ci è donata in modo totalmente gratuito, sia condivisa tra noi, tutti suoi amati e amate, senza fare alcun paragone, ma entrando nella sua logica, rivelataci una volta per tutte da Gesù Cristo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).

Enzo Bianchi

© www.monasterodibose.it

 

 

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