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La tentazione del dio fai-da-te per eludere il mistero

Mosè parla «faccia a faccia» con l’Altissimo, «come uno parla con il suo amico». Intanto, il popolo si prostra davanti «a un toro che mangia erba» (è la bellissima ironia del Salmo 106, v. 20).

vitello_oro7.jpgSu quello che accadde subito dopo si è soffermata la catechesi che Benedetto XVI ha pronunciato ieri, sul celebre episodio biblico del «vitello d’oro». Il popolo ha ceduto all’impazienza e alla demoralizzazione: «Fateci vedere qualcosa». Non importa se si tratta di qualcosa di meno alto, di meno puro, di meno assoluto del vero Dio. Dateci un pretesto per festeggiare ed essere felici, insomma, e ci basta. Dio non si vede, di Mosè non c’è più traccia. Dateci un dio portabile, una religione sostenibile. Alla tentazione si cede sempre in due: gli umori del popolo che chiede pane e giochi, da una parte, i dispensatori del sacro a buon mercato dall’altra. Storia infinita. I venditori di almanacchi, amuleti, divi fai-da-te, eventi toccare­per- credere, sono sempre pronti. Pensatori di complemento scrivono i testi, arredatori di grido confezionano icone. Un po’ sacre (da conservare un brivido d’infinito), un po’ profane (è la comunicazione, bellezza): con l’uso, la differenza non si vedrà più di tanto. Si comincia con «la materia di cui sono fatti i sogni», si finisce con le cromature di una berlina da brivido. (Questa non mangia erba, mangia strada: ma l’idea è quella). La fede stessa non è mai al riparo da questa debolezza, che induce, nei momenti della stanchezza e della prova quando sembra che più niente cammini davanti a noi, la tentazione di 'farsi un dio' più vicino: a costo di mettere i paramenti a un dio di bronzo (che non mangia neppure l’erba).

«È questa una tentazione costante del cammino di fede – dice chiaramente il Papa –: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti». L’espediente può sembrare persino innocuo, sulle prime: si tratta di venire incontro alla gente, di dare concretezza al mistero. Purtroppo, la deriva di un 'dio al consumo' è micidiale: non hai idea di cosa finirà nel catalogo. Un toro, è ancora niente. Di qui, la bellissima 'collera di Dio'. Passione pura, ogni volta. E struggimento irrevocabile, per questo inizio dell’autodistruzione della creatura. Ma qui viene anche il bello della storia. Sorpresa nella sorpresa, sulla quale insiste astutamente il commento del Papa: riprendendo l’astuzia del testo (che rispecchia, a sua volta, l’astuzia di Dio).
 
Mosè, che non era certo uno 'tenero' col popolo, in quel preciso momento, prende ostinatamente le difese del popolo. «Lasciali perdere – lo provoca Dio – farò di te una grande nazione». «Vuoi che gli altri dicano che hai liberato questo popolo dalla schiavitù – replica Mosè – per poi farli perire fra i sassi del deserto, aggiungendo la beffa all’abbandono?». «È a loro che Ti sei promesso – conclude Mosè – è a loro che devi dare un futuro. Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto». Ragazzi, così si prega, quando ti è affidato un popolo. Questo significa mettersi in mezzo, e 'fronteggiare' anche Dio, per amore del popolo. Mosè lo fa, perché sa che il suo azzardo corrisponde esattamente all’intenzione di Dio. In ogni modo, l’azzardo c’è tutto. Il Figlio sigillerà per sempre questo azzardo, conclude il Papa, tra Dio e Dio. Quando erano al sicuro, com’è giusto, Gesù incalzava i suoi discepoli con la richiesta di fedeltà a ogni costo. Nel momento del pericolo reale, però, quando le guardie arrivano, dice: «Lasciateli andare, prendete me». Il popolo è certamente stolto quando cede all’idolo, e chi ne ha cura – non senza essersi purificato fino a togliersi la pelle – deve ruvidamente fronteggiare una simile stoltezza. Ma dalle guide che Dio manda ad ogni generazione – quelle che hanno intelligenza e follia sufficienti per onorare l’incarico – Dio si aspetta che abbiano fegato per fronteggiare anche l’Altissimo, nel momento del pericolo, in favore del popolo. Niente a che vedere, insomma, con 'gadget' e 'grida' a buon mercato.

© Avvenire, 2 giugno 2011
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