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Intervista a Jessica Hausner

Genesi, luoghi e struttura.

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Perché la scelta di Lourdes per ambientare il suo film ?

Jessica Hausner : Prima di tutto mi è venuta l’idea di girare un film su un miracolo. Il miracolo rappresenta un paradosso, un’incrinatura nella logica che ci guida verso la morte. L’attesa del miracolo è in un certo senso la speranza che alla fine tutto vada per il meglio e che ci sia qualcuno che veglia su di noi. Durante le mie ricerche sui miracoli mi sono soffermata sul fenomeno particolare di Lourdes, luogo in cui i miracoli avvengono regolarmente. Ho scelto quel luogo per ambientare il mio film perché volevo evidenziare il fatto che i pellegrini ci vanno con la speranza di vivere un miracolo. In fondo, è questa la suspense della storia…

 

 

Non sono molti i film di finzione ambientati a Lourdes…È stato difficile ottenere i permessi per le riprese ?

J.H.: Sono andata diverse volte a Lourdes per i sopralluoghi. A poco a poco, durante le mie ricerche molto approfondite, si è stabilita un’intesa reciproca tra me e i responsabili dei santuari  e nel giro di un anno abbiamo ottenuto il permesso di effettuare le riprese.

 

 

Dopo la cella familiare di « Lovely Rita » e gli interni labirintici di « Hotel », la città di Lourdes è l’unico scenario di questo film. È molto attrattata dalle porte chiuse, dai luoghi chiusi o da situazioni esclusive per raccontare le sue storie ?

J.H.: Sì, molto. Il luogo delle riprese e l’ambientazione sono molto importanti per me. Per ogni film cerco di trovare un luogo unico, chiuso, isolato, perché mi aiuta a sviluppare una narrazione più parabolica… Ho bisogno di una porta chiusa ma anche di un abbigliamento particolare, perché mi aiuta a costruire la storia. In « Hotel » i personaggi indossano divise da albergo, in « Lovely Rita » divise scolastiche e in « Lourdes » divise dell’Ordine di Malta. Mi sforzo di rendere i personaggi meno individuali, voglio che rappresentino piuttosto i prototipi di un sistema, sociale o religioso che sia. Personalmente, sono consapevole di vivere all’interno di un sistema e so che questo influenza in parte il mio carattere. Faccio o non faccio ciò che la gente si aspetta da me e questo mi definisce. Faccio parte della società e recito il mio ruolo. Nel mio film, cerco di descrivere un sistema di questo tipo, in cui ciascuno ha il proprio ruolo.

 

 

Perché la scelta dell’Ordine di Malta ?

J.H.: Anche l’Ordine di Malta è un sistema e solleva gli stessi interrogativi del sistema sociale in generale : Cosa dobbiamo alla società ? Qual è il nostro posto nella scala gerarchica ? Mi è sembrato interessante osservare tutto questo all’interno di un Ordine in cui le persone si comportano non in base a scelte individuali ma in base alle attese del gruppo. È questo il filo conduttore dei miei film : il rapporto tra il ruolo che svolgiamo nella società e la nostra identità personale. Qual è il mio potere ? Il mio dovere ? Chi sono e chi dovrei essere ? I miei film esprimono l’idea che non è possibile trovare un’unica soluzione, oppure che se ne trovano diverse…

Ad esempio, adoro gli « haiku » giapponesi, dove ritrovo il paradosso e il mistero. Anche in Austria esistono generi narrativi molto brevi, assurdi e paradossali. Si tratta di una specie di poesia popolare, sempre condita da una certa dose di umorismo nero. Questi piccoli poemi lasciano aperta la porta a chi vuole entrare…

 

 

Attori e Personaggi

 

Qual è stata la reazione degli attori in questo universo molto cattolico ?

J.H.: Alcune attrici si sono rifiutate di recitare la parte di una donna paralizzata, ritenendo che quel ruolo, non abbastanza « sexy », avrebbe potuto nuocere alla loro carriera. Altre hanno messo in discussione il contenuto cattolico del film… Ho spiegato che, sebbene sia ambientato a Lourdes, il film non vuole essere un film cattolico. Mi servo di Lourdes per raccontare una storia più generale…

 

 

Come è stato lavorare con Sylvie Testud per preparare il suo ruolo ?

J.H.: Con Sylvie Testud c’è stata una lunga fase di preparazione. Abbiamo visitato diversi centri ospedalieri per conoscere i malati e ogni visita ci ha aiutate a capire meglio la malattia. Da un lato ci sono le preoccupazioni personali, familiari e sociali e, dall’altro, l’esperienza fisica di vivere inchiodati a una sedia a rotelle. Abbiamo anche lavorato con una fisioterapista per imparare come camminare alla fine del film. Per noi è stato estremamente interessante penetrare emotivamente in una situazione fatale, quella dell’handicap, e scoprirvi una specie di normalità e un benessere inattesi. Giorno dopo giorno la vita continua, così com’è.

 

 

La recitazione degli attori risulta precisa, molto controllata. Come ha lavorato con loro ?

J.H.: Prima di tutto faccio una sceneggiatura molto precisa : disegno uno story board per fissare i movimenti della cinepresa e definire le inquadrature. Poi mi attengo alla sceneggiatura durante tutta la lavorazione. Per quanto riguarda la recitazione degli attori, il mio scopo è fare in modo che i personaggi siano inseriti in un ritmo, in un sistema, come se gli attori formassero un corpo di ballo, che evolve seguendo le regole di una danza, di una coreografia della società nella quale si trovano. Sul set, compongo l’immagine poi indico agli attori come si devono muovere. Spesso le prime prove sono molto meccaniche, ma non appena gli attori imparano a muoversi all’interno di questo contesto imposto, cominciano a « abitare » la scena e il film prende vita.

Agli attori do indicazioni molto precise circa i loro movimenti e i loro gesti e allo stesso tempo mi aspetto che siano molto vivaci all’interno di questo contesto. È questa la difficoltà del mio metodo di lavoro… Léa Seydoux, ad esempio, è un’attrice molto vivace e intuitiva, che ha trasmesso una grande naturalezza al suo ruolo e al film, ma a volte è stato difficile riuscire a farla rimanere all’interno del contesto !

 

Nei suoi film gli uomini occupano un posto marginale. Incarnano il potere, nei panni di sacerdoti, ufficiali dell’Ordine di Malta, medici o padri. In che modo il potere maschile influenza le sue eroine ?

J.H.: La protagonista è una donna, gli uomini appartengono alle istituzioni, occupano un posto nella loro gerarchia. Trovo che il potere istituzionale e l’autorità siano terribili, in quanto sono soltanto una facciata apparente che cela un nucleo vuoto. Gli uomini di potere disturbano i miei personaggi femminili, che sprofondano in una specie di vuoto quando capiscono che questo sistema di autorità è privo di sostanza. Spesso durante il film i miei personaggi femminili imparano che quell’autorità maschile non è in grado di fornire loro una risposta. Questa scoperta li getta nello sconforto.

 

 

  

Credenza – Amore – Speranza

 

Il suo film va al di là di Lourdes e del cattolicesimo. Quale forma di fede vuole mettere in discussione ?

J.H.: Il film si interroga sul modo in cui possiamo dare un senso alla vita attraverso le nostre azioni. Di fronte a quest’idea c’è la paura che il mondo sia cupo e freddo, privo di un senso profondo, che si nasca per caso, che si muoia allo stesso modo e che nulla di ciò che facciamo durante la vita conti qualcosa. La verità è difficile da trovare, la nostra vita è al tempo stesso meravigliosa e banale.

 

 

Il film si pone in una prospettiva più filosofica che religiosa…

J.H.: Sì, solleva un interrogativo generale. Tuttavia, a me interessa l’emozione che accompagna il sentimento religioso. Avere fede significa credere che esista qualcosa che non si può spiegare e che supera i limiti della comprensione. I credenti lo chiamano dio. La fede consente di accettare che i miracoli possano accadere, è questa l’essenza della fede. Nel mio film il miracolo esiste : accade qualcosa di « miracoloso », che però in seguito diventa abbastanza banale. Allora ci si rende conto che questo « miracolo » non racchiude necessariamente una morale o un senso…che forse è soltanto un caso. È solo una tappa, poiché nulla è scontato. Lourdes non è il racconto di una guarigione, ma piuttosto una scatola cinese, in cui le scatole si aprono una dopo l’altra senza mai arrivare al centro…

 

 

Al centro del suo film, per l’appunto, troviamo un terzetto di donne in diverse condizioni di salute e di spirito : l’austera madre superiora (Elena Lowensohn), la sorella apprendista (Léa Seydoux) e la malata inchiodata alla sedia a rotelle (Sylvie Testud). Si è ispirata a qualche modello per questa configurazione triangolare ?

J.H.: Ho pensato a questa configurazione triangolare dopo avere fatto un pellegrinaggio con l’Ordine di Malta. Avevo individuato con chiarezza alcuni gruppi : i cavalieri, le dame, i giovani novizi che fanno il lavoro e i malati. Ho scelto un personaggio per ogni gruppo. Sicuramente sono stata anche influenzata da « Heidi ». Maria (Léa Seydoux), la giovane ingenua vestita di rosso, somiglia a Heidi e Christine (Sylvie Testud) è Clara, la ragazza vestita di azzurro sulla sedia a rotelle. E poi il personaggio rappresentato da Bruno Tedeschini è come Pierre e Cécile (Elena Lowensohn) somiglia alla governante Rottenmeier.

 

 

…e chi recita la parte del nonno affettuoso di Heidi nel suo film ?

J.H.: Probabilmente Dio (risata) .

 

 

È stata influenzata da altri film ?

J.H.: Per il mio film precedente, « Hotel », mi sono ispirata molto di più ad altri film, poiché avevo a che fare con il genere horror. Per « Lourdes » sono stata più libera, anche se per il soggetto ho attinto molto dal film « Ordet » di Dreyer. Per l’umorismo, invece, mi sono ispirata ai film di Jacques Tati.

 

 

Si può interpretare il suo miracolo – stile Lazzaro « Alzati e cammina » - come un omaggio alla forza della fede ?

J.H.: No, perché la « miracolata » non è particolarmente credente. Nel mio film il miracolo è bello, ma è un po’ come se non fosse motivato da niente o da nessuno.

 

 

 

Estetica

 

Come mai il suo stile è caratterizzato da lunghe inquadrature, spesso fisse, ad eccezione dei movimenti di folla ?

J.H.: Non ci sono solo inquadrature fisse ma anche movimenti della cinepresa e zoom. La mia sceneggiatura punta a individuare le immagini che possano raccontare come funziona questo gruppo. A un certo punto del film qualcuno scatta una foto di gruppo : gli individui sembrano fondersi nella massa. In una foto di questo tipo, la disposizione delle persone è eloquente : a sinistra le dame (dell’Ordine di Malta) , al centro i malati e a destra i cavalieri. Dopo la foto, il gruppo si scioglie e ridiventa caos. Questa piccola scena racchiude in sé tutta la storia che volevo raccontare.

 

 

Perché fa vedere le preghiere, le visite nella grotta e i bagni nella loro durata e non in modo più ellittico ?

 J.H.: Faccio vedere gli elementi del processo di pellegrinaggio : i rituali, i luoghi… La vera ellissi è altrove, poiché il film segue un’economia essenziale : l’incrinatura nella logica, la ragione del miracolo.

 

 

Perché le tende bianche hanno un ruolo tanto centrale ?

J.H.: Gioco con l’idea che dietro la tenda si nasconda qualcosa. Cosa esattamente ? È questa la domanda. I miei film raccontano l’incognita di ciò che ci sfugge intellettualmente, che ci è estraneo emotivamente.

Ma poi, quando si dà un’occhiata dietro alla tenda, si scopre qualcosa di terribilmente banale. In « Hotel », il personaggio scopre un parcheggio dietro alla tenda e in « Lourdes » la tenda nasconde un rituale di abluzioni con l’acqua benedetta di Lourdes. Si apre la tenda e non si trovano risposte. Il senso ci sfugge ancora una volta.

 

 

Ora vorrei parlare della luce particolare di LOURDES. A volte sembra « illuminare » i suoi personaggi, senza però creare un’atmosfera « sacra »…

J.H.: Ho fatto in modo che la luce non creasse un’atmosfera sacra, che non evocasse la presenza di un essere o di una forza superiori. Ho anche evitato di alludere a una forza superiore attraverso un movimento del carrello, ad esempio. Preferisco una soluzione come quella di « Ordet », di Dreyer : i fari di un’automobile che illuminano momentaneamente un muro, il folle vi scorge l’arrivo della morte e la famiglia vi scorge l’arrivo dell’auto del medico. Il medico arriva e cinque minuti dopo ? Il malato è morto. Avevano ragione tutti quanti: la luce sul muro era sia una premessa di morte sia i fari di una macchina. Trovo favoloso che un regista riesca a trovare un’estetica che riflette questo paradosso e quest’ambiguità…

 

 

Umorismo

 

Il suo scopo non era quello di ridicolizzare la religione, ma di affrontare le questioni esistenziali con leggerezza e ironia…

J.H.: Sì. Nel Vangelo ci sono storie al limite dell’ironia. Ad esempio, la storia del contadino che cerca braccianti per arare il suo campo e promette loro come ricompensa una moneta d’oro alla fine della giornata. Al mattino, alcuni lavoratori cominciano ad arare il campo.

A mezzogiorno, arrivano altri braccianti e chiedono se possono lavorare; il contadino dice di sì. Alla sera, arrivano altri braccianti. Alla fine della giornata, il contadino dà una moneta d’oro a ciascun bracciante. Quelli che hanno lavorato tutto il giorno si lamentano: perché quelli che hanno lavorato soltanto per un’ora dovrebbero ricevere anche loro una moneta d’oro ? Il contadino risponde: « Non si tratta forse del mio campo ? Non posso pagare i braccianti come voglio ? ». È una storia impressionante… .

 

 

In sintesi, possiamo dire che il suo film ruota intorno a un mistero ?

J.H.: Un miracolo solleva la questione del senso delle cose. Posso influenzare il corso del mio destino attraverso le mie buone azioni o non sono altro che un palloncino in balìa del caso ? È questo contrasto tra il senso e l’arbitrarietà che costituisce il nucleo della storia. Ecco perché, dopo essere stata miracolata, Christine dice : « Spero di essere la persona giusta ».

 

 

Intervista realizzata nel mese di aprile 2009

 

www.lourdesilfilm.it

 

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