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Per una città dal volto umano

Intervento di P. Bartolomeo Sorge tenuto lunedì 26 settembre 2011 nella Cattedrale di Bari, nell'ambito della rassegna "Notti Sacre" dal 23 settembre al 2 ottobre 2011 nelle chiese di Bari vecchia.

S_ae750d7f5a.jpgUno degli aspetti più gravi della crisi del nostro tempo è che il volto umano della città va scomparendo. Il quadro che si presenta ai nostri occhi è preoccupante. La città oggi non è più in grado di garantire né l'identità dei suoi cittadini, né la loro vivibilità sociale. E’ profondamente mutato il tipo di convivenza umana che caratterizzava, fino ad anni recenti, gli agglomerati urbani. Il tessuto sociale cittadino è lacerato. La condivisione di un ethos comune, su cui si fonda il senso di appartenenza dei cittadini tra di loro, oggi si è incrinata in seguito al moltiplicarsi sul territorio di identità culturali, etniche e religiose diverse. Ciò, oltre a frammentare il tessuto culturale della città, rende difficili o impossibili le relazioni interpersonali.

E’ nato così un modo nuovo di concepire l’«abitare», a causa sia dello smembramento del territorio, sia della numerosa presenza di immigrati, sia del crescente divario tra i quartieri ricchi e i quartieri poveri della periferia, ridotti spesso a veri e propri «dormitori». Di conseguenza è sempre più difficile vivere in città, da cui si cerca di evadere appena si può e come si può, per cercare rifugio là dove è ancora possibile una vita a misura d'uomo. Tanti cittadini vivono nella paura, non si sentono più sicuri neppure in casa e, in certe zone, vi sono ore in cui si ha paura di scendere in strada. Tutto ciò alimenta il rancore e la rabbia verso le istituzioni e verso lo Stato, da cui la gente si sente abbandonata, lasciata in balìa della malavita e di bande criminali.

La radice di questa crisi della città è di natura non solo sociale, ma soprattutto culturale e spirituale. Per usare un'immagine, potremmo dire che hanno perso visibilità e significato i principali luoghi-simbolo, intorno ai quali la città è nata, si è costruita e dai quali traeva alimento fino a non molti anni fa: la Piazza, luogo per eccellenza della vita sociale e delle relazioni interpersonali degli abitanti; il Palazzo di Città, cuore pulsante della sua vita amministrativa e politica; la Cattedrale, segno e culla dell'unità spirituale della popolazione. Perciò, per restituire un volto umano alla città, occorre cominciare con il dare un'anima nuova a questi luoghi-simbolo. Ciò, però, non può avvenire per decreto dall'alto, ma solo dal basso, grazie cioè all'iniziativa degli stessi cittadini. Che cosa fare concretamente?

1) In primo luogo, al di là della vecchia Piazza, occorre costruire altre piazze nei quartieri nuovi e in periferia, cioè occorre offrire a tutti (nativi e immigrati, residenti e ospiti) nuove occasioni d'incontro e di accoglienza e di relazioni amichevoli; 2) in secondo luogo, occorre aprire il Palazzo di Città alla partecipazione responsabile degli abitanti, mettendoli in grado di prendere parte attiva alla vita amministrativa e politica; 3) infine, occorre che le porte della Cattedrale rimangano aperte, affinché dalla città chi vuole possa agevolmente «andare in Chiesa» e dalla Chiesa possa agevolmente uscire per «andare in città» a portare la testimonianza della fede e della solidarietà fraterna.

Vediamo dunque, più da vicino, che cosa comporti questo triplice impegno.

 

1. Piazze nuove

Il primo impegno deve essere quello di creare in città piazze nuove. Infatti, la vecchia Piazza ha cominciato a perdere significato sociale a misura che in città la vita di relazione si andava facendo via via più difficile. La presenza dell'altro e l'incontro tra diversi, di cui la Piazza è stata sempre il simbolo, sono vissuti oggi non più come una ricchezza, ma come un ostacolo che rende più difficile l'integrazione sociale e spinge i cittadini a isolarsi. La disoccupazione, la precarietà, la diffusione delle droghe e altre piaghe sociali hanno finito con il creare nuove sacche di povertà e nuove barriere psicologiche, alle quali si è aggiunto, da ultimo, l'espandersi disordinato del fenomeno immigratorio. Perciò, in città si moltiplicano i casi di discriminazione e di esclusione sociale, mentre la distanza tra il Centro storico e i quartieri popolari cresce a dismisura sul piano culturale, nonostante che dal punto di vista urbanistico centro e periferia siano contigui e formino un'unica città. A rendere più sensibile il divario contribuiscono i moderni strumenti di comunicazione sociale, che creano relazioni e rapporti «virtuali», del tutto evanescenti, a scapito delle normali relazioni sociali e dei naturali rapporti interpersonali. Tutto ciò mette in crisi l'identità dei cittadini e la vivibilità sociale della città.

In altre parole – notava il card. Martini parlando della situazione di Milano anche la paura che oggi istintivamente si prova all’arrivo degli «stranieri» e dei «diversi» dipende più che dalle sfide insite nel fenomeno immigratorio, dal fatto che la città ha perso la sicurezza della propria identità e del suo ruolo umanizzante. Occorre perciò essere consapevoli che la paura dell’altro «si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno a occupare attivamente il proprio territorio e a occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola – ammoniva il Cardinale – è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione»[1].

Dunque la città ha bisogno di nuove piazze, cioè di nuove reti di relazioni, che favoriscano il rafforzamento dei legami di solidarietà, già operanti in città: da quelli familiari a quelli delle amicizie, dei gruppi sociali e culturali, politici ed ecclesiali. In particolare, per ricompattare il tessuto lacerato della città, c'è bisogno di gesti concreti di solidarietà verso gli ultimi e non di sacche di privilegio o di degrado sociale che invece disgregano. Il cardinal Martini insisteva sulla necessità di rivolgere l'attenzione agli ultimi, la quale – concludeva – oggi non è più dovuta, come in passato, alla paura «della rabbia dei poveri, che ormai, ridotti di numero e di potenza, stentano a far sentire la loro stessa voce e a trovare una rappresentanza politica», ma al fatto che «la nostra chiusura produce un male forse ancor peggiore, perché più sottile, che non la rabbia del povero: l’indebolimento dello spirito di solidarietà»[2].

Ecco perché il fatto che la Piazza abbia perduto il suo significato di luogo-simbolo ci  interpella non solo come cittadini, ma anche come cristiani. Infatti, quanti credono che il Figlio di Dio si è fatto uomo, nostro fratello ed «è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), in virtù della loro stessa fede sono portatori di una innata sensibilità di comunione, di solidarietà e di fratellanza. Pertanto, i cristiani non possono rimanere chiusi in casa e assentarsi dalla vita della città. Sono chiamati, anzi, a impegnarsi coraggiosamente: e non solo a difesa dell’uno o dell’altro dei cosiddetti «valori non negoziabili», ma affinché il modello di città, nel suo insieme, si fondi sulla carità oltre che sulla giustizia. La giustizia certamente ci vuole. Essa è il fondamento della convivenza civile e, senza giustizia, non c'è Stato di diritto. Tuttavia, la giustizia da sola non basta a rendere umana e vivibile la città. Al di là della tutela dei diritti fondamentali, è importante garantire l'aspetto umano e solidale della vita civile, se vogliamo costruire la città dell'uomo. Non basta, cioè, affermare in via di principio e sul piano giuridico il primato della dignità personale, della vita, della famiglia, del diritto all'educazione e al lavoro, se poi i comportamenti e le scelte programmatiche vanno a scapito della fraternità dei rapporti interpersonali. In altre parole, la vita sociale e culturale della città è strettamente legata alla vita amministrativa e politica. Non basta creare nuove piazze, se nello stesso tempo il Palazzo di Città non si apre alla partecipazione responsabile della cittadinanza.

 

2. Il Palazzo di Città

Perciò, il secondo impegno deve essere quello di aprire il Palazzo di Città alla partecipazione responsabile degli abitanti. Infatti, come la Piazza, così anche il Palazzo di Città oggi non è più il luogo-simbolo di quello spirito di servizio, da cui hanno avuto origine l'idea e il nome stesso di Comune. Come dimostrano anche casi recenti, quando il Palazzo di Città si chiude in se stesso, finisce prima o poi in mano ad amministratori di dubbia legalità e privi di senso civico, ridotti al rango di semplici burocrati, indifferenti alla partecipazione attiva della cittadinanza. Le conseguenze del degrado amministrativo sono molto gravi e la città può finire nelle maglie della criminalità organizzata. Ora, il Palazzo di Città è il primo volto dello Stato che il cittadino vede e con il quale s'incontra; è il luogo dove egli fa la prima esperienza della complessità della vita sociale, dei suoi conflitti e delle sue speranze. Si può dire che il senso dello Stato nasce e muore all'ombra del Palazzo di Città, dove i problemi locali s'intrecciano con quelli nazionali. Il Comune, perciò, è chiamato a essere una vera e propria «palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica»[3].

Come può la gente avere fiducia nello Stato e conservare il necessario senso civico, se gli amministratori e i responsabili della cosa pubblica sono i primi ad agire in modo non trasparente se non addirittura illegale? Se coloro che per ufficio devono imporre sacrifici alla gente, sono i primi a ritenersi esonerati dal farli? La disonestà e l'avvilente spettacolo di una classe dirigente preoccupata più del proprio interesse personale che del bene comune, minano alla radice il senso civico dei cittadini e la cultura della legalità. Se cede il Palazzo comunale, muore la legalità; se muore la legalità, muore la città; se muore la città, muore lo Stato.

Affinché questo non avvenga, si deve rinnovare il Palazzo e con esso si rinnoverà anche lo Stato. Tuttavia, per rinnovare il Palazzo non c'è altra via che aprirsi alla partecipazione responsabile della cittadinanza attiva. La vecchia logica del «centralismo democratico», secondo cui tutto si decide dall'alto, è finita con la caduta delle ideologie, aprendo la strada alla logica della partecipazione responsabile dal basso, su cui si basa la democrazia matura. Solo aprendosi alla società civile, il Palazzo comunale potrà tornare a essere luogo-simbolo della città moderna e contribuire così al rinnovamento anche del Paese. Sia la Piazza, sia il Comune devono diventare il luogo, anzi la scuola, dove i cittadini imparano a vivere uniti rispettandosi diversi. Al raggiungimento di questo traguardo è chiamata a contribuire anche la Chiesa, la quale perciò dovrà – essa pure – rinnovare la presenza in città, svolgendo in forma nuova il suo ruolo e restituendo così alla Cattedrale quel valore di luogo-simbolo, che sembra  avere smarrito.

 

3. La Cattedrale

 Perciò, il terzo impegno riguarda il nuovo modo di porsi della Cattedrale nel cuore della città, come luogo-simbolo della dimensione spirituale della convivenza umana. Infatti, se è vera la diagnosi che abbiamo fatto della crisi della città, è chiaro che la soluzione non può venire soltanto dall'elaborazione di un nuovo piano urbanistico. A che servirebbe rendere i centri urbani più belli e attraenti dal punto di vista architettonico, se poi rimanessero spiritualmente e culturalmente fatiscenti? Il futuro della città, infatti, dipende molto più dal costume e dalla cultura dei cittadini che dalla bellezza dei suoi edifici o dal buon funzionamento delle istituzioni e dei servizi. E’ illusorio pretendere di rigenerare le periferie degradate, solo varando un piano regolatore di ristrutturazione urbana. E’ importante, invece, dare un'anima alla città, ripartendo dalle qualità civili e morali dei cittadini. Solo ricuperandone l'identità culturale e spirituale perduta, si può rendere umanamente vivibile lo spazio urbano; si tratta, dunque, di ristabilire un ethos condiviso, in base al quale realizzare l’unità nella pluralità e garantire il bene comune.

Ecco perché, accanto alla necessità di nuove Piazze e di un Palazzo di città aperto alla società civile, occorre che anche la Chiesa rinnovi il suo rapporto con la città e con i cittadini. La presenza della Cattedrale nel centro della città deve essere il simbolo eloquente del molto che la Chiesa ha da ricevere dai cittadini e del molto che la Chiesa ha loro da offrire. E' importante, perciò, che le porte della Cattedrale siano sempre aperte, affinché chiunque dalla città possa agevolmente «andare in Chiesa» e dalla Chiesa possa «andare in città».

Che cosa significa per la Città la possibilità di «andare in Chiesa»? Anzitutto significa riconoscere che i problemi della convivenza civile e dell'uomo hanno una dimensione spirituale e trascendente. L'uomo e Dio stanno insieme: se l'uomo perde Dio, perde se stesso; se ritrova se stesso, ritrova Dio. Nello stesso tempo, «andare in Chiesa» significa per la Città condividere con tutti fraternamente le sofferenze, i problemi, le speranze e i progetti, senza temere di interrogare criticamente la Chiesa sulle sue manchevolezze e su certi comportamenti poco evangelici, da parte di chi dovrebbe precedere tutti con l'esempio per rendere credibile l'annunzio di cui la Chiesa è portatrice.

Che cosa significa per la Chiesa «andare in città»? Don Tonino Bello, che si era posto questa domanda, rispondeva così: «andare in città» significa per la Chiesa «scegliere gli ultimi. Significa riversarsi nelle strade come dice il Vangelo, e chiamare ciechi, storpi, sordi, per invitarli tutti al banchetto del Regno. Significa, in termini concreti, vincere la paura che parlare di poveri, di disoccupati, di marittimi sbarcati e senza lavoro, di sfrattati, di drogati… sia fare sociologismo, sia fare l'orecchiante al linguaggio di moda, sia fuggire per la tangente della denuncia demagogica e gratuita, sia tradire Cristo per l'uomo […]. "Andare in città" – concludeva il servo di Dio – per la nostra Chiesa locale deve significare porre gesti significativi di condivisione con gli ultimi; scegliere la povertà come stile di vita tenendo presente che "povero (pauper)" non si oppone tanto a "ricco (dives)", quanto a "potente (potens)"; denunciare i meccanismi violenti che opprimono i poveri nelle nostre città; esprimere questo servizio crocifiggente senza sottintesi clientelari, ma solo perché il mondo sia più mondo, l'uomo sia più uomo, e non perché diventino più chiesa»[4]. Questo significa illuminare i problemi dell'uomo  con la luce della fede, «andare in città».

Di fronte alla grave crisi del Paese – aggiungiamo noi –, «andare in città» significa per la Chiesa non chiudersi in sagrestia, non tacere né rimanere passiva. Certo, la Gerarchia, a motivo della sua stessa missione, non può e non deve coinvolgersi in scelte di parte. Non per questo, però, può mancare al grave dovere di orientare le coscienze, esprimendo con parresìa evangelica un giudizio morale non sulle persone (Gesù stesso non ha mai giudicato nessuno!) ma sulle culture politiche e sui modelli di società che si confrontano nel Paese, sulla disonestà dei «comitati d'affari» e delle «reti clientelari», sulla coerenza morale o meno di comportamenti e di scelte che hanno una forte ricaduta sulla vita pubblica. La diplomazia uccide la profezia. Questo vale dunque per quanto riguarda l'«andare in città» dei Pastori.

Per quanto riguarda poi i fedeli laici, «andare in città» significa certamente rendersi presenti sul piano culturale, caritativo e sociale; ma non basta. Le iniziative culturali e il servizio dei poveri sono necessari, ma complementari e non alternativi all'animazione cristiana della politica, la quale rimarrà sempre la forma più ampia di carità e di servizio al bene comune. In concreto, per i fedeli laici «andare in città» significa impegnarsi politicamente, senza però rinchiudersi nel ghetto di un «partito cattolico» contrapposto agli «altri», come alcuni nostalgici oggi tornano a proporre, ma mediando i valori evangelici in scelte politiche «laiche», coerenti ed efficaci, condivisibili da tutti, credenti e non credenti, in collaborazione leale e aperta con tutti gli uomini di buona volontà.

Concludendo: affinché la Piazza, il Palazzo di Città  e la Cattedrale tornino a essere luoghi-simbolo di una città a misura d'uomo, si richiede l'impegno responsabile da parte di tutti. E, poiché abbiamo fatto questo discorso in Cattedrale, mi sia consentito chiuderlo con una riflessione sul bel momento che abbiamo vissuto insieme qui, questa sera, nell'abitazione di Dio nel cuore della città. Il successo di queste «Notti sacre» nelle chiese di Bari Vecchia è la migliore conferma di quanto sia importante che la Cattedrale tenga sempre le porte aperte, come in questa settimana, affinché chiunque lo voglia possa «andare in Chiesa» per ritrovare Dio e il senso della propria esistenza e possa ugualmente uscire dalla Chiesa per «andare in Città», portandovi la luce della fede e la forza rinnovatrice dell'amore.

Bartolomeo Sorge



[1] C. M. MARTINI, Paure e speranze di una città. Discorso al Comune di Milano (28 giugno 2002), 692.

[2]  Ivi., 693.

[3]  Ibidem

[4] ANTONIO BELLO, Scritti vari, interviste, aggiunte, Mezzina 2007, Molfetta, 16s.

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