O l'eucarestia contagia la nostra vita, la riempie, la modella, la plasma, la informa o resta sterile, morta, inutile. La Messa inizia proprio nel momento in cui usciamo dalla porta della chiesa. E dura un'intera settimana. Quel pane ricevuto ci aiuta a sfamare la folla, ad accorgerci della fame insaziata di chi incontreremo durante la settimana e a mettere a disposizione quel poco che siamo per sfamare ogni uomo, nel corpo e nell'anima.
Molti dicono: ma cos'è questo rebus di tre che sono uno e di uno che sono tre? Non sarebbe più semplice credere in un Dio unico, punto e basta, come fanno gli ebrei e i musulmani? La risposta è semplice. La Chiesa crede nella Trinità, non perché prenda gusto a complicare le cose, ma perché questa verità le è stata rivelata da Cristo.
Da questa contemplazione del sole trinitario discende quella spiritualità di comunione che deve caratterizzare il cammino delle nostre Chiese nel Millennio appena cominciato: "Prima di programmare iniziative concrete, occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità" (NMI 43)
In qualunque parte della terra, in qualunque epoca, in qualunque ora, si radunano assieme due o più discepoli del Signore, egli sta in mezzo a loro. Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata ancor più larga nello spazio e nel tempo; per sempre avrebbe accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai potuto allontanare Gesù dalla loro vita.
"Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (vv. 25-26). Gesù aveva capito che i discepoli erano smemorati e inclini all'incomprensione; e noi non siamo diversi. Per questo aggiunse che avrebbe mandato lo Spirito come maestro interiore dei discepoli e di ogni credente. Sarà suo compito «insegnare» e «ricordare» le parole dette da Gesù.
Non è quando Gesù lo formula durante la vita, che il comandamento dell'amore diventa un comandamento nuovo, ma quando, morendo sulla croce e dandoci lo Spirito Santo, ci rende, di fatto, capaci di amarci gli uni gli altri, infondendo in noi l'amore che egli stesso ha per ognuno.
Gesù conosce i suoi discepoli (e, in quanto Dio, tutti gli uomini), li conosce "per nome" che per la Bibbia vuol dire nella loro più intima essenza. Egli li ama con un amore personale che raggiunge ciascuno come se fosse il solo ad esistere davanti a lui. Cristo non sa contare che fino a uno: e quell'uno è ognuno di noi.
L'amore di Pietro era sempre stato sincero e profondo, nonostante le debolezze che venivano a galla nelle difficoltà. Pietro è il vero testimone della fragilità che ci portiamo addosso, tutti.Da qui la domanda di Gesù: "Mi ami?". Una domanda che, di fronte alle difficoltà o alle nostre debolezze, a volte, mette in imbarazzo anche noi nel rispondere: "Signore, tu sai che ti amo".
Il cuore dell'evento drammatico non è tanto la croce, quanto piuttosto il Crocifisso. La croce da sola resta un segno che evoca certo dolore, sofferenza, morte, ma senza svelarcene immediatamente il significato. La croce senza il Crocifisso resta come per gli antichi romani un supplizio infamante o come per i nostri contemporanei un elemento osceno.
Essere perdonati prima di ogni altra cosa è percepire ‘quello' sguardo e presagire che la vita, anche la più disgraziata, offre sempre una nuova possibilità, riserva ancora un guizzo inedito, nasconde una chanche impensata. È il perdono infatti e non la perfezione il destino di ciascuno di noi: non si nasce perfetti, si diventa migliori.