“Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano”: queste parole del Signore Gesù Cristo sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con lui. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. Niente o nessuno, infatti, ci potrà mai separare dall’amore di Cristo
La “seconda conclusione” del vangelo secondo Giovanni è straordinaria perché non è tentata di raccontare fatti straordinari o sovrumani riguardanti Gesù risorto, ma vuole dirci solo la sua presenza discreta, elusiva, fedele e paziente in mezzo alla sua comunità. In essa emergono le due figure di Pietro e del discepolo amato. A Pietro spetta seguire Gesù, non mettere la mano sul discepolo amato dal Signore, che resta misteriosamente presente nella chiesa. Chi è visionario e vede con gli occhi di Cristo riconoscerà il Signore, mentre Pietro resta uno che non ha saputo riconoscere il Risorto se non su indicazione del discepolo amato, che rimane.
La Pasqua è venuta, la pietra pesante è stata rovesciata e il sepolcro si è aperto. Il Signore ha vinto la morte e vive per sempre. Non possiamo più starcene chiusi come se il Vangelo della risurrezione non ci sia stato comunicato. Il Vangelo è risurrezione, è rinascita a vita nuova. E va gridato sui tetti, va comunicato nei cuori perché si aprano al Signore.
«È compiuto», cioè tutto è giunto al compimento, «consummatum est». Sì, si è compiuta la volontà di Dio, Gesù ha compiuto pienamente la vocazione ricevuta, Gesù ha vissuto all’estremo il comando ricevuto dal Padre, il comando dell’amore (cf. Gv 13,1). Questo «è compiuto», è un grido di gioia, è un grido di eucaristia, è un grido di benedizione, è un grido di vittoria.
Quella di Gesù è stata una fedeltà a caro prezzo, perché anche in croce è stato nuovamente tentato, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, all’inizio della sua vita pubblica
Chi si riconosce peccatore, può sperimentare che la misericordia di Dio in Gesù Cristo rende possibile ogni giorno un nuovo inizio. E così è reso capace di usare tale misericordia nei confronti degli altri
Questa è la conversione: credere all’amore di Dio per noi e accogliere con un cuore libero la sua inesauribile misericordia. Solo così potremo usare a nostra volta misericordia verso gli altri
Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
"Questo mi consola nella mia miseria: la tua promessa mi fa vivere", preghiamo con il Salmo 119,50. Nelle difficoltà della vita spesso altro non c'è su cui appoggiarsi che una promessa. Così è per l'addentrarsi nel cammino quaresimale, cammino in cui la nostra stessa miseria e fragilità chiede di essere riconosciuta e assunta, per arrivare a celebrare la Pasqua realmente con azzimi di sincerità e verità.
Gesù ha subito queste tentazioni in quanto uomo come noi; ha veramente vissuto questi abissi, imparando così ad aderire alla realtà. Dopo questa prova del deserto, Gesù ormai sa come svolgere la missione e come portare a termine la sua vocazione, con la forza dello Spirito santo. Questa però non è per Gesù una vittoria definitiva: il diavolo tornerà a tentarlo, fino alla fine. Ma egli sarà sempre vincitore, uguale in tutto a noi eccetto che nel peccato: per questo trionferà sulla morte e, quale Risorto, vivrà per sempre