
«Davanti alla Croce, non si spiegano i misteri. Si contemplano. Si accolgono. Si piangono»
Fratelli e sorelle carissimi,
oggi è il giorno del silenzio che grida, dell’assenza che svela la Presenza, della morte che ci parla della Vita. Ci troviamo ai piedi della Croce, luogo che per l’uomo è scandalo e follia, ma che per Dio è spazio di rivelazione e compimento.
Il Cristo, tradito, schernito, inchiodato, ci ha parlato fino alla fine. Con parole strappate dal dolore, Egli ha consegnato sé stesso come dono, come perdono, come grembo che genera una nuova umanità.
In questo giorno santo, non celebriamo, ci lasciamo celebrare. È la Croce che oggi prende la parola; è il silenzio che ci insegna; è la fragilità di Dio che si manifesta come forza.
Abbiamo ascoltato la Passione secondo Giovanni.
Un racconto dove Gesù appare non tanto vittima, quanto Signore: un Re che si consegna. Tutto è nelle sue mani, anche se sembrano inchiodate.
E proprio lì, nel cuore di quell'amore trafitto, Gesù parla. Non molte parole, solo sette, che la tradizione ci tramanda. Tre di esse ci vengono consegnate dal vangelo di oggi. Parole scolpite nel legno della Croce, che risuonano come ultime volontà, come rivelazioni definitive.
- «Ecco tuo figlio… Ecco tua madre» (Gv 19,26-27)
Gesù, vedendo sua madre e accanto a lei il discepolo amato, non si chiude nel proprio dolore. Non è ripiegato su sé stesso. È l’ora dell’estrema sofferenza, eppure continua a generare vita, a creare relazioni, a tessere comunità.
Non lascia orfani. Non lascia sola la Madre. Non lascia solo l’amico. E ci insegna che la Croce non è la fine dei legami, ma l’inizio di una fraternità nuova.
Nel grembo del dolore nasce la Chiesa: non fondata su strategie, ma su un amore che affida, accoglie, custodisce.
Nel Venerdì Santo della storia – e quanti “venerdì” abitano oggi il nostro mondo, tra guerre, migrazioni, solitudini, tradimenti – anche noi siamo chiamati a essere madri e figli gli uni degli altri. La Croce non ci invita a compatire da lontano, ma a generare prossimità, a prenderci cura gli uni degli altri.
- «Ho sete» (Gv 19,28)
È la parola più umana di tutte. Eppure, la più divina. Il Figlio di Dio ha sete. La sete di chi ha dato tutto. La sete non solo dell’acqua, ma dell’uomo, della nostra risposta, della nostra vicinanza.
In quel «ho sete» c’è il grido di ogni innocente abbandonato, di ogni cuore che chiede amore.
È Dio che mendica un sorso, non per sé, ma per noi: perché possiamo imparare a dissetare la vita degli altri.
Ci chiede di diventare delle sorgenti anche quando ci sentiamo aridi. Di offrire un po’ della nostra umanità, anche quando è fragile. Perché l’amore, quando si fa dono, disseta più di mille parole.
Eppure – e qui il dolore si fa pungente – a questa sete risponde l’aceto. È il paradosso dell’uomo: Dio chiede amore, e riceve le nostre amarezze. Ma non giudica. Non si ritira. Beve fino in fondo, anche l’aceto, perché nulla della nostra vita resti fuori dalla sua salvezza.
- «È compiuto» (Gv 19,30)
Non è un grido di resa. È il grido di chi ha portato a termine la missione. Non c’è amarezza in quelle parole, ma pienezza.
Tutto è compiuto. Tutto è stato amato.
Gesù non ha lasciato nulla a metà. Non si è tirato indietro davanti al dolore, alla solitudine, al tradimento.
Ha amato fino all’estremo. E ci ha mostrato che la vita ha senso solo se si dona, solo se si perde per amore. Questa è la logica del Vangelo.
- Non è la Croce in sé che salva. Ma l’amore con cui è portata.
- Non il dolore, ma la dedizione. Non la morte, ma il dono di sé.
Fratelli e sorelle,
oggi non siamo chiamati a capire tutto, a comprendere l’enorme portata di quanto accade. Davanti alla Croce, non si spiegano i misteri. Si contemplano. Si accolgono. Si piangono. Ma da questa Croce impariamo che l’amore non fugge,
che la cura si fa carne, che Dio non ci salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza, che ogni “fine” può essere principio,
e che anche nei giorni del buio più fitto, si può amare fino alla fine. E così, in questo silenzio che ci avvolge, non c’è solo morte. C’è germoglio; c’è attesa; c’è speranza che si ostina.
Preghiera al Crocifisso
Gesù, uomo della Croce,
Figlio di Dio,
dono alla vita di ogni uomo,
tu sei venuto a cercarmi
e mi hai regalato l’abbraccio del Padre.
Tu sguardo di misericordia,
sei il perdono e la vita.
Nelle mie tenebre
hai posto la luce del tuo sguardo,
mi hai amato e risanato.
Il tuo grande amore per me,
e per ogni uomo,
mi seduce all’amore per tutti,
sradicando ogni rancore e malignità.
A te mi abbandono:
inonda del tuo amore
la mia fragile esistenza;
irrora di lacrime il mio volto indurito;
colma di umiltà il cuore.
Nel silenzio del sepolcro,
restiamo con Te, vegliando la speranza.
Tra le pietre del dolore fiorisce l’attesa:
non abbandonarci Signore,
la vita ritrovi la pace in Te e la gioia in Te. Amen
✠ Giuseppe Satriano
Arcivescovo