
«Solo un amore reciproco, fondato sulla fedeltà di Dio all’uomo, ci rialzerà dai nostri fallimenti e dalle mille cadute»
Stiamo attraversando i giorni dello stupore e nel grembo della nostra vita, della nostra storia, attraverso fatiche e meraviglie, Dio si fa strada.
Dopo la scena della mangiatoia, la liturgia ci conduce al tempio di Gerusalemme, dove ritroviamo Gesù cresciuto, ormai dodicenne.
Luca, da abile narratore qual è, ci aiuta a comprendere la crescita del bambino di Nazaret, fotografandolo nel contesto della sua famiglia e nella dimensione religiosa del pellegrinaggio annuale a Gerusalemme per la festa di Pasqua. In questa cornice, Luca inscrive le prime parole di Gesù nel suo vangelo.
“Perché mi cercavate?”. La domanda di Gesù a Maria ci pone dinanzi a una realtà difficile, ma concreta: anche per Maria è giunto il momento drammatico di comprendere la fatica del generare alla vita, la fatica dell’amare e capire il proprio figlio, il dramma della libertà, come rispetto della decisione altrui, fondamento di una crescita in autonomia che mette in conto anche il fallimento e il malinteso.
Nella scena evangelica ci sono tutti gli ingredienti di una sana relazione familiare:
- La “scomparsa” del figlio dall’ideale quadro familiare, tipico di ogni adolescente che inizia a prendere coscienza di sé;
- “l’ansia” dei genitori costretti all’inedito da eventi non previsti;
- la “dura” risposta di Gesù alla preoccupazione legittima dei genitori.
Quanto accade mette in luce quella giusta distanza tra figlio e genitori che manifesta lo spazio fecondo di crescita per una individualità matura.
Se da un lato la scena evangelica ci presenta Maria e Giuseppe come genitori che non esercitano un controllo oppressivo sul figlio (Gesù si muoveva con libertà in questa carovana di parenti e amici), dall’altro, le parole di Maria a Gesù, esprimono una genitorialità capace di comunicare: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo".
Nelle parole di Maria, infatti, non c’è accusa ma desiderio di comprendere. Maria non colpevolizza, ma esprime la sua sofferenza e quella di Giuseppe.
Quante volte, nell’esperienza genitoriale, siamo chiamati a ridare alla luce un figlio, maturando la consapevolezza che la sua vita non ci appartiene?
Quante volte siamo chiamati a riposizionarci dinanzi all’originalità dei nostri bambini, accogliendo l’opportunità di crescere anche per noi?
Luca, che ha aperto il suo vangelo dell’infanzia nel tempio con Zaccaria, chiude la sua narrazione ancora nel tempio, collocandovi al centro Gesù ormai dodicenne. L’intento è chiaro, luca desidera mostrare come solo Gesù sia Colui che dà movimento, senso e compimento alla nostra vita di cercatori di Dio: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Nel momento in cui l’uomo pensa di aver afferrato Dio e di averlo messo dalla sua parte, Dio scompare, poiché Egli è sempre oltre, sempre più in là, inafferrabile.
Quella della fede è esperienza ardua, anche per Maria e Giuseppe: “non compresero”, afferma il testo.
Con la sua fine narrazione, Luca, lontano da ogni forma di idealizzazione, ci aiuta a capire la santità della Famiglia di Nazaret.
Centrata in un forte rapporto con Dio, essa sperimenta la capacità di essere comunità di vita aperta al mistero e al disegno dell’Altissimo, spazio vivace dove s’impara a vivere l’esodo da sé stessi per divenire, come afferma Giovanni, nella seconda lettura di oggi, figli di Dio … realmente.
Gesù, racconta Luca, “scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso”, si pone sotto la custodia dei suoi, fuori da ogni logica di possesso, mentre “sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”.
L’epilogo del brano ascoltato ci offre due coordinate con cui affrontare la vita in ogni esperienza familiare, anche nella Chiesa, chiamata ad essere famiglia per i figli di Dio.
La reciprocità nell’amore, che ci porta a vedere l’altro come Dio lo vede, e la dimensione contemplativa, ovvero la capacità di tenere tutto insieme sotto lo sguardo di Dio. Solo così le realtà, anche difficili, si dispongono ad essere solco salvifico per ciascuno.
Solo un amore reciproco, fondato sulla fedeltà di Dio all’uomo, ci rialzerà dai nostri fallimenti e dalle mille cadute restituendo speranza al vivere, sapendo scorgere il nuovo che nasce, aprendo l’esistenza di ciascuno allo stupore dei giorni.
Buon Natale e buona vita a tutti!
✠ Giuseppe Satriano
Arcivescovo