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“Ho sete !”

Omelia di S.E. Mons. Giuseppe Satriano nella Celebrazione della Passione del Signore del Venerdì Santo. Cattedrale di Bari, venerdì 15 aprile 2022

La Liturgia, con i suoi segni, ci ricorda che il silenzio e la polvere sono necessari per accostarci al trono della Croce fino a poter riconoscere in esso, non un luogo di sconfitta e di annientamento, ma un segno di vittoria.

Il libro del profeta Isaia e quanto ascoltato nella Lettera agli Ebrei, ci aiutano a comprendere come la croce sia il palcoscenico su cui viene rivelato l’amore infinito, tenero e libero, con cui Dio ci ama.

Egli ci sta davanti come l’uomo dei dolori, rigettato dagli uomini.

“Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.” Isaia, I lettura.

“Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.” Ebrei, II lettura.

La croce è un patibolo ma si trasfigura quando accoglie Gesù crocifisso.

1H8A0634.jpgAnche le grida e le lacrime del Figlio morente non sembrano essere ascoltate dal Padre, tutto sembra assurdo, ma i testi di Isaia e della lettera agli Ebrei ci dicono che nulla è accaduto invano e che tutto ha un senso, un orientamento, un fine: riscattare la vita mediante l’amore.

Mentre Giovanni, l’apostolo che lo seguì da vicino e che rimase con sua madre presso la croce, ci fa contemplare un Cristo che, pur schiacciato dalla sofferenza, è circonfuso di sovrana maestà.

Quello che avviene sulla croce, come attesta il vangelo di Giovanni, è un nuovo parto. Dalla croce sgorga la salvezza che ricrea l’umanità, restituendogli la dignità della figliolanza divina.

L’evangelista nella sua narrazione ci consegna alcune delle sette parole pronunciate da Gesù sulla croce.

In particolare una delle ultime tre mi interessa porre alla vostra attenzione:

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».

C’è una sete drammaticamente reale, il corpo è disidratato e fa richiesta d’acqua.

Il bisogno della sete è violento, Gesù vive uno strazio assoluto. La sua carne reclama un bisogno insopprimibile, facendoci cogliere che Gesù è veramente umano in questo suo sentire e  avverte il bisogno dell’acqua in maniera vera, autentica.

Gesù sta affermando che non può vivere senza bere, è una tortura che non sopporta. Egli denuncia un bisogno vitale.

Quanti bisogni non reali, non vitali, animano la nostra vita facendoci assolutizzare cose relative che ci inducono a gesti insulsi, inqualificabili, a prepotenze che schiacciano gli altri.

Gesù nel comunicare la sua sete non assolutizza il proprio istinto, il proprio bisogno ma lo fa diventare relazione: Gesù chiede, domanda, invoca, come aveva fatto con la Samaritana al pozzo, esprimendo un’infinita umiltà del cuore.

Egli sa che deve bere il calice del Padre, sta bevendo la sua dolorosa passione, ma la sua sete lo spinge a supplicare i suoi interlocutori… ma di che sete Gesù patisce in questo momento? Ha sete di acqua oppure c’è un’altra sete che Gesù denuncia?

Accanto alla sete d’acqua Gesù ha sete d’amore, ha sete di noi, dei nostri cuori. Egli sente la nostra sete, avverte il nostro vivere troppo inaridito.

La sua sete d’acqua è ormai irrisolvibile e la sua denuncia guarda ora alla nostra sete: la sete di Dio, la sete d’amore. Egli ora la comprende in tutta la sua drammaticità e la grida dall’alto della croce.

Ecco che l’acqua che non ha ricevuto, Egli ce la dona da quel costato trafitto, dove prende vita il cammino di una umanità rinnovata.

1H8A0640.jpgL’invito, che viene rivolto a noi tutti, è quello di cogliere il frutto maturo che pende dall’albero di vita della Croce, ovvero un amore libero perché liberato, capace di dono e non di possesso, incline a perdersi per l’altro e non più ripiegato egoisticamente su se stesso.

Il peccato di Adamo e di Eva, da cui sono scaturite le tenebre, e che ha inaridito e lacerato la terra, è stato risarcito nell’amore filiale e obbediente del Cristo.

Anche noi possiamo, come Cristo, essere realmente presenti nella nostra storia da protagonisti e, il Triduo Pasquale ce lo ricorda.

Anche noi come Lui possiamo abbandonarci all'avventura di essere uomini e donne “fino alla fine”(Gv 13), come Lui, per diventare anche noi, terra assetata e deserta, spazio fecondo per una nuova fioritura, pronti a risorgere e a segnare una storia ricca di luce e di grazia per tutti.

Concludo, elevando al Signore un pensiero del Card. Anastasio Ballestrero, nostro compianto Arcivescovo:

 

«Signore, a volte sono tentato di credere

che cedere a te è perdere la mia dignità.

E con i miei istintivi moti di resistenza

alle tue iniziative, comprometto nella mia vita

la tua opera, e la mia felicità.

Tu entri nella mia vita con la tribolazione,

con l’aridità, col travaglio,

perché tutto ceda a te,

perché io lasci il campo libero alla tua azione

e tutto diventi fedeltà.

Il mio modo umano di concepire la virtù,

di darle contenuto, di sceglierne gli atti,

tutto ciò a cui credo di avere diritto,

tante volte è un ostacolo per te,

che hai il diritto di farmi santo a modo tuo,

non a modo mio.

Fa che impari a lasciarti via libera, coi fatti.

Allora, la vita diventa un rettilineo perfetto,

che non ha più sorprese.

Dovunque io vada, ti trovo;

dovunque io guardi, ti incontro;

dovunque si diriga il mio cuore,

là tu sei in attesa;

dovunque si fermi la mia stanchezza,

là sei tu ad aspettarmi.

Perché, allora, dovrei perdere la strada cercando me stesso?

Tu mi dici: Chi perderà la propria vita per me la salverà”.

Perché non perdere me stesso per cercare e trovare Te solo?»

 

Così sia!

 don Giuseppe, vescovo

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